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Forlì ieri e oggi

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A cura di Piero Ghetti

La distruzione della Chiesa di San Biagio 73 anni dopo: la rievocazione di una ferita insanabile

Domenica 10 dicembre 1944 una bomba d’aereo ad altissimo potenziale cancella per sempre la chiesa quattrocentesca di San Biagio in San Girolamo e 20 povere vite

Domenica 10 dicembre 1944, una bomba d’aereo ad altissimo potenziale cancella per sempre la chiesa quattrocentesca di San Biagio in San Girolamo e 20 povere vite. A 73 anni esatti di distanza, quel tragico evento, ferita insanabile per il patrimonio storico-artistico forlivese, sarà rievocato da Gabriele Zelli e Marco Viroli domenica alle 10, sul sagrato dell’odierna San Biagio ricostruita nel 1952. I due storici partiranno dallo stato d’animo dei forlivesi del tempo, con la città appena liberata dagli anglo-americani e assolutamente ignara dello scenario di distruzione e morte che stava per ripresentarsi. “Alle 17,15 precise – scrive Antonio Mambelli nei suoi Diari - alcuni aerei tedeschi compaiono improvvisamente sui cieli”. Si appurerà poi trattarsi di quattro “Focke-Wulf 190 F8”, dotati ognuno di una sola bomba “Grossladungsbombe SB 1000” ad altissimo potenziale, munita di spoletta “AZ 55 A” con sviluppo esplosivo orizzontale anziché “ad imbuto” (mancanza del cratere) per farla esplodere prima dell'impatto al suolo.

La squadriglia era partita dall’aeroporto militare di Verona ed aveva viaggiato quasi a volo radente per non farsi scoprire dai radar inglesi. Giunti su Forlì, gli aerei sganciano il loro carico da 2.200 kg su San Biagio e in corso Diaz (nel punto in cui attualmente sorge il teatro Diego Fabbri). Le altre due bombe lanciate in periferia non scoppiano. Purtroppo funziona benissimo l’ordigno piovuto sull’area della ghiacciaia Monti, già monastero di Santa Chiara, appena divenuto deposito logistico dell’Esercito Britannico e dunque il vero obiettivo dell’attacco. Un errore balistico di poche decine di metri provoca un danno irreparabile: l’esplosione cancella la basilica quattrocentesca e con quella la Cappella Feo dedicata a San Giacomo Maggiore e i magnifici affreschi di Marco Palmezzano realizzati su cartoni di Melozzo da Forlì. La cappella era stata aggiunta nel 1498 all’impianto originario della basilica, eretta nel 1433, per volere di Caterina Sforza, signora della città, che aveva inteso così onorare l’amante Giacomo Feo (sposato in segreto), ucciso in una congiura nel 1495 e lì sepolto. L’ordigno annienta anche 20 povere vite, fra cui tre bimbi, il sacerdote salesiano don Agostino Desirello e una monaca clarissa, suor Giovanna.

L’anziano presbitero aveva appena celebrato messa, l’ultima della sua vita: il cadavere riaffiorerà solo cinque giorni dopo. Di nuovo Antonio Mambelli: “Dalle 17.30 alle 2.30 i soldati inglesi, affiancati dai pompieri, scavano fra le macerie per estrarre eventuali superstiti. Si salvano Giorgina Aguzzoni e Antonietta Ghini”. Alla distruzione della chiesa scampa un pugno di opere d’arte: il Trittico di Marco Palmezzano con la Madonna in Trono e Santi, l’Immacolata Concezione di Guido Reni realizzata nel 1627, un’acquasantiera quattrocentesca in marmo bianco e il sepolcro funebre di Barbara Manfredi, scolpito nel 1466 da Francesco di Simone Ferrucci e ricollocato al termine dei restauri nell’abbazia di San Mercuriale. A ricordo degli affreschi della Cappella Feo restano le vecchie foto in bianco e nero, realizzate dallo studio Alinari di Firenze nel 1938 in occasione della mostra celebrativa di Melozzo da Forlì. Il 10 dicembre fu una tragedia anche per l’Opera salesiana. “Quasi tutti i fedeli – scrive l’allora direttore dell’oratorio, don Marco Perego – erano usciti dalla chiesa. Si era a cento passi dal portone quando si sentì la contraerea e si vide un aereo nemico sganciare. Ci buttammo sotto il portico fra i camion inglesi. Fu un attimo: un colpo non tanto forte, un cascare di macerie, un polverone che ci soffocava, dissolto il quale San Biagio non c’era più. Il muro più alto rimasto in piedi, in corrispondenza dell’abside, non superava i due metri: tutto amputato e dissolto”. La parrocchia di San Biagio viene trasferita all’Istituto Buon Pastore, in via dei Mille, dove rimarrà sino al 1952, l’anno dell’inaugurazione della nuova chiesa, rifatta sulla falsariga dell’antica per preciso intervento di Cesare Valle, il grande architetto razionalista molto compromesso col regime fascista, ma autorità indiscussa anche nel dopoguerra repubblicano. Valle, esaminando il progetto in qualità di componente della Commissione ministeriale per la ricostruzione, pretese un’opera di pregio e così fu.

Non è stato riproposto il campanile, ma solo per carenza di fondi. Le campane dell’antica San Biagio continuano invece ad assolvere la loro funzione, essendo state rimontate sul campanile del Duomo ricostruito a partire dal 1970. Alla fine degli anni Sessanta è stato assurdamente “completato” il lavoro di rimozione storica, con la cancellazione del relitto del porticato sopravvissuto alla bomba. Quegli antichi mattoni, che durante l’attacco aereo avevano salvato pure delle vite, pagarono senza appello il fatto di stonare con il prodotto della ricostruzione post bellica. La distruzione bellica dell’antica San Biagio, perdita pazzesca per il patrimonio storico-artistico forlivese, rivela anche un lieto fine legato al sepolcro di Barbara Manfredi. Nel puzzle di frammenti del monumento miracolosamente riemerso dalle macerie della chiesa disintegrata, c’è praticamente tutto eccetto il naso del volto marmoreo della giovane sposa di Pino III Ordelaffi. Pietro Reggiani, il grande studioso forlivese scomparso nel 1955, non si dà per vinto: per giorni fruga con un bastoncino da passeggio fra i detriti, finché non lo ritrova.

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