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Forlì ieri e oggi

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A cura di Piero Ghetti

Quando l’acquedotto romano generò la Pieve

Per narrare le vicende della pieve romanica di Santa Maria in Acquedotto, una delle più antiche e meglio conservate della Romagna, occorre partire dalla misteriosa colonna romana in marmo grigio, che fa bella mostra di sé sul sagrato della chiesa. Nei pressi, in epoca romana passava l’acquedotto di Traiano diretto a Ravenna

Per narrare le vicende della pieve romanica di Santa Maria in Acquedotto, una delle più antiche e meglio conservate della Romagna, occorre partire dalla misteriosa colonna romana in marmo grigio che fa bella mostra di sé sul sagrato della chiesa. Nonostante gli studi accurati avviati negli anni Trenta del XX secolo dall’arciprete di Pieveacquedotto monsignor Attilio Fusconi, non se ne conosce ancora la funzione. Qualcuno ipotizza possa trattarsi di una pietra miliare, proveniente dalla non lontana Via Aemilia. Dall’alto verso il basso riporta la scritta: “MAGNENTIO INVICTO PRINCIPI (…) LIBERATORI ORBIS-ROMANI RESTITUTORI- LIBERTATIS ET-REIPVBLICAE CONSERVATORI-MILITVM ET-PROVINCIALIVM DOMINO-NOSTRO VICTORI-ET-TRIVMPHATORI SEMPER-AVGVSTO”.

Pare una sorta di propaganda a favore di un certo Magnenzio. La faccenda si complica non appena si scorge l’ulteriore dicitura capovolta: “IMP-D-N FL-IVLIO-CONSTANTIO NOBILISSIMO-CAES”. Qui si fa riferimento all’imperatore Costanzo II vissuto fra il 328 e il 332. La colonna, distolta dalla funzione originaria, è stata capovolta per essere riutilizzata. Il manufatto è stato anche all’interno della chiesa come basamento di una croce, per poi ritornare definitivamente fuori ed essere dato alla funzione ornamentale attuale. “La Pieve di Santa Maria in Acquedotto – scrive Eugenio Russo in “Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia” – deve il suo nome al fatto che di lì transitava l’acquedotto fatto costruire da Traiano e restaurato da Teodorico, per portare l’acqua da Meldola, o da Ricò, fino a Ravenna”. Il ricercatore rileva anche che “l’acquedotto si è in seguito identificato col percorso del fiume Ronco deviato, chiamato per un certo periodo Acquedotto”.

Sebbene non ne sia rimasta traccia e al netto delle emozioni anni Settanta di alcuni anziani residenti a Pieveacquedotto (la frazione forlivese sorta sulla Ravegnana a ridosso della chiesa), che ricordavano l’emersione di alcuni basi del manufatto nei primi anni del Novecento nel corso di una secca epocale del fiume, l’esistenza dell’imponente manufatto è attestata. Le sue acque, oltre che abbeverare la futura capitale dell’Impero Romano d’Occidente (402 d.C. con Teodosio) e dell’Esarcato bizantino d’Italia (539 d.C. con Giustiniano), rifornivano la flotta romana di base a Classe.

Citata per la prima volta in un documento del 27 maggio 965 e ricostruita nel 1273, Santa Maria in Acquedotto è stata riportata all’originalità romanica nel 1933 da monsignor Attilio Fusconi, parroco dal 1906 al 1957, l’anno della morte. Il sacerdote pagò di tasca propria le ingenti spese necessarie. Si prodigò molto per la salvaguardia del monumento anche il successore monsignor Serafino Milandri, scomparso nel 2011. Di notevole impatto visivo è pure il campanile, che risale al Mille, epoca in cui si diffuse nella cristianità l’uso delle campane. E’ privo della cuspide, tipico elemento ornamentale delle torri forlivesi. Crollata per un rovinoso terremoto alla fine del ‘700, non è più stata ricostruita. Da una porticina interna alla chiesa si accede alla canonica, in predicato di diventare il nuovo polo giovanile diocesano. L’ultimo grande restauro del pregevole monumento si è concluso pochi mesi fa.

“E’ un evento speciale per questa antichissima pieve – ha dichiarato il giovane parroco don Andrea Carubia il 27 ottobre scorso, in occasione della riconsacrazione dell’altare – che in due anni è ritornata all’antico splendore grazie ad un sapiente restauro finanziato dal fondo dell’8x1000 per la Chiesa Cattolica e dai contributi della Fondazione della Cassa dei Risparmi di Forlì e delle Soprintendenze di Bologna e Ravenna”. L’intervento, costato circa mezzo milione di euro, ha ridato stabilità all’edificio, che adesso è praticabile in piena sicurezza. L’altare riconsacrato sembra essere quella della primitiva chiesa, risalente al V-VI secolo. Gli scavi del 1928 disposti da don Attilio Fusconi, riportarono alla luce diversi reperti tra cui, appunto la mensa. La Regia soprintendenza di Ravenna attestò l’antichità della grande pietra, che, fino all’inizio dei lavori dell’ultimo restauro, era esposta alle pareti interne dell’edificio. 

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