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Il Foro di Livio

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A cura di Umberto Pasqui

Gli anni dell'orfanotrofio

Il "San Francesco Regis" e il "Sant'Anna", due istituzioni forlivesi che nell'Ottocento si fecero carico dei figli rimasti senza famiglia per il colera.

Le epidemie lasciano strascichi dolorosi. Per esempio, si sa che il 1° aprile 1856, la Cassa dei Risparmi e il Comune di Forlì decisero che quindici bambini poveri resi orfani dal colera sarebbero stati mantenuti nell'Istituto San Francesco Regis. Si tratta dello storico orfanotrofio maschile ottocentesco, posto accanto all'omonima chiesa tra via De Amicis e via Pisacane. L'orfanotrofio femminile, a quel tempo, era il Sant'Anna, nell'isolato tra le vie Nullo e Maceri, luogo che pochi decenni fa è stato completamente stravolto: scomparso per sempre. In seguito, saranno mantenuti i nomi ma mutati i luoghi: così il San Francesco Regis andrà nell'isolato tra le vie Nullo e Maceri mentre il Sant'Anna su quella che anche oggi si chiama via Sant'Anna. Le strutture erano servite pure come ospizio per mendicanti e dopo la fine di Napoleone furono riconvertiti del tutto in ricovero per giovani poveri o rimasti senza genitori. 

In quel 1856, ognuno degli orfani del San Francesco Regis sarebbe stato sovvenzionato con 50 lire mensili e avrebbe dovuto indossare una medaglia in ottone con una raffigurazione dell'Immacolata Concezione e la scritta: "Orfano della Cassa dei Risparmi 1855". La storia degli orfanotrofi, a Forlì come altrove, è lunghissima e qui la si concentra nel periodo tra la Restaurazione e l'Unità d'Italia. Ed è un periodo, come si è visto, di epidemie, quindi si dovette far fronte a un aumento esponenziale degli orfani e le istituzioni che già ricevevano bambini e bambine erano senza fondi né con spazi sufficienti. Così la Giunta, nell'estate del 1855, deliberò il riadattamento del San Francesco Regis per poter accogliere cinquanta fanciulli tra i 7 e i 10 anni, battezzati, cresimati e vaccinati contro il vaiolo. L'istituto, chiamato "Immacolata Concezione", presieduto dal Vescovo, avrebbe avuto anche delle partecipazioni del Comune (attraverso il Gonfaloniere) e della Cassa dei Risparmi. Il maestro principale era un cappellano con obbligo di residenza nell'orfanotrofio: insegnava a leggere, scrivere, far di conto, dottrina; premiava con medaglie, verificava con esami, puniva come allora si soleva. Il tutto rappresentava un costo, quindi venivano raccolti fondi attraverso attività quali tombola e affini. Se poi i bambini, una volta cresciuti (potevano rimanervi fino al compimento del diciottesimo anno), fossero stati avviati al lavoro in una bottega, avrebbero devoluto un terzo del salario all'istituto. 

Si sa che nel 1842, al San Francesco Regis, risultavano stipendiati diversi ruoli di personale di istruzione, igiene, amministrazione e servizio. In particolare, il Rettore aveva anche vitto e alloggio, vi era il maestro di carattere e di aritmetica, il maestro di disegno e il maestro di musica (che ricevevano due paoli a lezione). Poi era presente il medico, il flebotomo, il segretario, l'archivista, il cassiere, il contabile, il fattore, il magazziniere, il custode portiere (con vitto e alloggio, come il cuoco e il governante). La spesa degli stipendiati si aggirava sui 441 scudi annui mentre le entrate erano 2000, grazie anche al profitto derivato da due fondi rustici, case e censi. Ogni orfano costava all'Istituto 16 baiocchi al giorno. Nelle Memorie storiche intorno ai Forlivesi benemeriti della umanità e degli studi nella loro Patria, in particolare sullo Stato attuale degli stabilimenti di beneficenza e d'istruzione (1843), Sesto Matteucci scrive: "Parmi che sarebbe ottima cosa estendere alquanto l'istruzione tecnica di questi fanciulli oltre i cinque mestieri di fabbro, falegname, sarto, calzolaio e pettinagnolo tanto più che dieci essendo le botteghe annesse al pio luogo dieci arti diverse potrebbero stanziarvi. Così vi si potrebbero aggiungere i mestieri dell'ottonajo, del vetraio, dell'ebanista, del legatore di libri, del sellajo". Inoltre, "sarebbe utile istruire qualcuno di questi giovanetti nell'arte di tener libri di amministrazione o in quella della rurale e pastorizia agenzia con che si darebbero alla città buoni agenti esperti fattori oggi tanto rari". La vecchia struttura del San Francesco Regis, in quel 1842, accoglieva 27 ragazzi e non poteva tenerne più di 35. "Si ricevono dai 7 ai 12 anni e devono essere muniti delle fedi di battesimo di vaccinazione di salute e di miserabilità. Agli alunni vien data l'istruzione normale e quella dei mestieri e non è a tacersi che il pio luogo stipendia un maestro di disegno ed uno di musica. Se qualcuno vedesi inchinato alle lettere ed alle scienze gli si permette andare alle scuole dei gesuiti". Le botteghe che avrebbero insegnato un mestiere ai ragazzi erano "nella parte che guarda la strada e piazza di San Francesco" (cioè piazza delle Erbe), in modo da essere "sempre sotto gli occhi e la sorveglianza del rettore". I pasti comprendevano: pane, minestra, riso, zuppa, paste, bollito di manzo, pesce, insalata, frutta e mezzo boccale di vino per tutti. Il dormitorio era capace di 35 letti "composti di pagliariccio capezzale e due lenzuoli nell'estate e due buone coperte di lana nell'inverno". Il Vescovo ogni anno premiava i più diligenti con medaglie e libri. Non mancavano le punizioni: reclusione a pane e acqua ed espulsione comprese. Gli orfani vestivano con giubba, calzoni e corpetto di panno misto (in inverno). Se uscivano, indossavano anche il "ferrajuolo, il cappello nero e le calze pur nere". L'uniforme estiva era una veste lunga di "canepa a spina di colore verde cupo", ma se uscivano tornava il nero, sempre "di canepa", con "calze nere e cappello nero rotondo". L'Istituto aveva "un piccolo orticello" e un cortile "a sollazzo dei giovani". 

Il Conservatorio Sant'Anna era dedicato alle ragazze senza famiglia e povere. In quel 1842 c'erano 26 fanciulle di cui sei orfane. La gestione era simile all'analogo maschile ma qui c'era pure "una pia signora" che "è la direttrice dell'istituto", una "priora" che "regola l'educazione morale delle alunne", sorvegliandole durante le uscite dall'orfanotrofio. Due maestre "che pure risiedono nel convento", inoltre "istruiscono le zitelle nei lavori e nella lettura". Le ragazze imparavano, infatti, a leggere ma non a scrivere. Tra le altre attività si prevedevano i "lavori dei telai" per cui il Sant'Anna era rinomato e il "far le calze" e la giornata era scandita dalla preghiera. Le ragazze, per accedervi, dovevano essere di "nascita forlivese", di "povertà, onestà e condizione civile per le mendicanti e per le orfane", dovevano patire "la privazione dei genitori o almeno uno di essi", e con l'attestato medico di "complessione robusta e d'innesto del vajuolo". Erano ammesse tra i 10 ai 12 anni e "ogni giovane al ventunesimo anno deve essere collocata presso onesta ed agiata famiglia che le appartenga o che l'abbia richiesta in servizio, oppure può maritarsi se le si presenta buona occasione ed in questo caso le vien data una dote di scudi 20". Cosa mangiavano? Pane, minestra, legumi, riso, paste, carne, "pesce se in vigilia", frutta, "insalata in due sere alla settimana" e anche per loro vino. Nei giorni festivi c'erano perfino tre fette di salame nel menù e alla vigilia della Madonna del Fuoco pasteggiavano pure con una ciambella e una pizza di pane bianco con olio e zucchero; l'Epifania portava venti castagne a testa. "Soltanto il sabbato sera vanno a passeggiare per un'ora fuori di città" e "al passeggio e nelle funzioni vestono abiti uniformi cioè una sopravveste di sala color bleu cupo e sul capo un manto di mussolo bianco che scende sulle spalle". Per le altre sere, dopo cena c'era la confessione e poi il letto. Nell'Istituto si dividevano i compiti "per l'ottimo divisamento di far buone massaie" e si coricavano in un vasto e arioso dormitorio (nell'immagine). Alle disobbedienti veniva ordinato di rifare i lavori male eseguiti o di prodigarsi in orazioni di penitenza. L'orfanotrofio femminile presentava complessivamente meno costi e le ragazze conducevano una vita quasi claustrale, a differenza dei più "liberi" maschietti. Con l'Unità d'Italia, gli orfanotrofi forlivesi passarono alla Congregazione di Carità, opere pie statali o municipali, poste sotto la tutela governativa e non più ecclesiastica. 

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