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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Gli ortolani di San Sebastiano

Un piccolo oratorio nel cuore di congregazioni scomparse con l'arrivo dei francesi: i Battuti Bianchi e la Venerabile Compagnia degli Ortolani.

E' puro, elegante, semplice. E’ tipicamente forlivese, perché non si gongola ammiccando con marmi o fregi ridondanti e se ne rimane silenzioso, in attesa che qualcuno posi gli occhi su esso. Avvicinandosi, si osserva che la porta è spesso chiusa, salvo quando vi si svolgono mostre o iniziative culturali. Nottetempo è illuminato, di giorno si fa notare da chi ha l'animo gentile, sebbene meriti maggiore valorizzazione. Un’iscrizione su una mattonella in cotto ricorda che: “Giordano Bruno Righini / questo insigne monumento donò alla città / il ministero per i beni culturali / lo riportò all’antico prestigio / l’amministrazione comunale di Forlì / lo volle degna sede / per convegni d’arte e cultura / Forlì 3 ottobre 1982”. Mentre una più recente indicazione racconta la storia del piccolo luogo di culto, noto come oratorio di San Sebastiano, che tra Otto e Novecento vivrà un periodo non certo all'altezza della sua singolarità.

Il suo architetto si chiama Pace di Maso del Bambase, detto in guisa sbrigativa Pace Bombace (1440 – 1500), proveniente da una famiglia di ricamatori e appartenente alla fertile cerchia di amici di Melozzo. Conosciuto in città ma ignoto nel resto d’Italia, si dimostrò all’altezza dei nomi più in voga del tempo, come il più anziano Leon Battista Alberti. Venne chiamato a fare il progetto e iniziare i lavori che proseguirono dopo la sua morte: l’oratorio fu aperto nell’aprile del 1502. Un’iscrizione dà un nome nuovo, quello di chi completò l’edificio: Io Ieronimo de Ginoco fece fare adi primo d’aprilo 1502. Tale lavoro fu chiesto a Bombace da una delle tante confraternite “colorate” di Battuti (cioè flagellanti) presenti a Forlì fino all’avvento di Napoleone. Qui, tra la chiesa di San Tommaso Cantuariense, ora appena intuibile in via Anita Garibaldi, e la gigante dedicata a San Giacomo in San Domenico, i Battuti Bianchi avevano creato un ospedale e una chiesa, poi sostituita dall’attuale. Si trattava di una confraternita religiosa ricca e aristocratica, a cui era affidata la custodia di un importante orfanotrofio fino a tutto il Settecento. Proprio i Battuti di San Sebastiano dovevano essere tra i più numerosi se nelle processioni sfilavano sessanta coppie di donne e centoquaranta di uomini. Alla fine del Quattrocento avevano promosso la costituzione di una compagnia per aiutare i “poveri vergognosi”, cioè i ricchi caduti in povertà a cui venivano date offerte delicatamente in segreto. Caterina Sforza era particolarmente benevola e generosa nei loro confronti, tanto che finanziò buona parte delle loro strutture. Così San Sebastiano fu la nuova chiesa dei Battuti Bianchi, gente di buona famiglia che si occupava della cura e dell’educazione di bambini poveri e abbandonati, chiamati, appunto, “bianchini” e “bianchine”. Privilegio dei Bianchi era ottenere, ogni anno alla festa d’Ognissanti, nel corso di una solenne funzione in Cattedrale, la piena riabilitazione, compresa la restituzione dei beni confiscati, di un condannato a morte o di un bandito. 

L’oratorio si presenta a croce greca e sull’atrio è collocata una cupola protetta a sua volta da una particolare struttura in mattoni che scandisce la mezza sfera in settori confinati, nella parte più esterna, da colonne. Il tetto ottagonale, appoggiato sulla cupola, ricorda la cappella del Sacramento della Cattedrale forlivese, progettata dal medesimo Pace Bombace nel 1490 per volontà di Caterina Sforza. Doveva esserci un’altra cupola maestosa sulla volta maggiore, scomparsa nel tempo o solamente progettata, poi tamponata da un tetto spiovente; non mancava neppure un piccolo campanile di cui oggi non resta traccia. La facciata è severa ma alleggerita da una lunetta sottolineata da una rientranza curva. Sulle pareti laterali si osservano luci di forme diverse, aperte o chiuse. L’interno desta stupore per le preziose decorazioni in cotto e tracce di affreschi. L’intonaco bianco crea un contrasto suggestivo ed elegante con le rifiniture attribuite all’architetto Bernardino Guiritti di Ravenna e si notano residui gotici. Ora il tempietto è spoglio, ma vi erano conservate tele preziosissime. Pace Bombace, cresciuto artisticamente al tempo di Pino III Ordelaffi che amava circondarsi di architetti fiorentini, realizzò nel suo oratorio una sintesi tra modelli toscani e romani, con linee aggraziate, archi a tutto sesto, sobrio ed elegante, indicando una via nuova, quella del cotto, in luogo di materiali più lussuosi. 

Difficile però ricordare che questa bomboniera fu sede di una Venerabile Compagnia sorta tra quegli ortolani di Forlì sotto la protezione di Nostro Signore Gesù e Santa Maria Maddalena che pativano i molti danni che apportavano a loro campi ed orti le cavallette, le rughe ed altri vermi nocivi. Così, come si legge nella documentazione reperibile all'Archivio di Stato, né sapendo tra le cose umane ritrovar rimedio a tanto loro danno, stabilirono di ricorrerre agli aiuti del Cielo ed in particolare alla S.ma Madonna del Fuoco per ottenere il potentissimo di lei Patrocinio. Forlì, si sa, era una città piena di orti all'interno delle mura; oggi, di tutto questo tradizionale patrimonio verde, è stato risparmiato soltanto uno scampolo a Schiavonia, tra il monastero della Ripa e la circonvallazione. Il sodalizio, nato nel 1748, era retto da un priore (il primo fu Tomaso Zelini ma quello che ha lasciato più tracce scritte si chiamava Alessandro Tassinari); c'erano vicepriori e ufficiali e il cappellano (è citato don Giuseppe Giulianini). La Compagnia degli Ortolani trovò, come detto, sede in San Sebastiano e lo scopo principale della congregazione era far celebrare una messa solenne e litanie alla Madonna del Fuoco dopo una processione che dall'oratorio raggiungeva la Cattedrale con lumi accesi. I costi per la funzione cantata in musica si ricavavano dalle questue tra gli ortolani tanto di dentro che fuori della città che contribuendo così quella carità che ad ognuno suggerisce la propria divozione. Carta canta: si raccoglievano più soldi di quanto sarebbero serviti per la messa. Si sa che 6 Scudi andavano al Canonico custode della Madonna del Fuoco, 30 Scudi alla sorveglianza dei soldati del Palazzo pubblico e altre cifre per il suono delle campane della Cattedrale all'andata e al ritorno della processione. Veniva elargita una piccola somma anche al massaro di San Sebastiano che porta il Cristo mentre venivano fornite a noleggio quattro torce per accompagnare il Crocifisso durante la processione. Spesso erano coinvolti anche trombettieri e tamburino. Nel 1785, a forza di legati, la Venerabile Compagnia degli Ortolani era proprietaria di almeno un paio di altri immobili: una casa del signor Taddeo Tassinari dal valore di 134 Scudi in strada Sant'Agostino, la casa dei Facibeni nella parrocchia di San Biagio dal valore di 118 Scudi. Poteva vantare anche rendite di altro tipo; nella cassaforte della sacrestia in San Sebastiano c'erano, nel 1798, oltre 937 Scudi. Anche quest'associazione di uomini di buona volontà dovrà essere sciolta con l'arrivo dei francesi: nel 1799 sospende le attività e la registrazione dell'inventario finale definitivo porta la data del 27 settembre 1802. 

L’oratorio, passato dalla Confraternita degli Ortolani ai conti Dall’Aste Brandolini, venne chiuso definitivamente il 28 marzo 1860. 
Poi fu un magazzino di paglia, un’officina, e fino a qualche decennio fa svolgeva la mansione di magazzino di vernici
L’ultimo proprietario, Giordano Bruno Righini, lo donò nel 1972 al Comune, promuovendone e seguendone il completo restauro. 
Salvo il lieto fine, il secolo successivo alla chiusura è stata una parentesi insolente per l'edificio geniale, segnalato come capolavoro del Rinascimento in Romagna, secondo solo al tempio malatestiano di Rimini.

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