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Martedì, 16 Aprile 2024
Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Guariti da San Pellegrino

Conoscete qualche miracolo attributo all'intercessione del Santo forlivese? Eccone una selezione.

Tra queste pagine si è già scritto diffusamente di San Pellegrino Laziosi. Essendo però, oggi, la festa patronale dedicata al ghibellino convertito non ci si può esimere dal trattarne. Quest'anno, poi, la ricorrenza capita in coda a giorni di restrizioni dovute a ben noti problemi di emergenza sanitaria e, per la prima volta dopo tanti anni, il tutto si terrà a porte chiuse e senza cedri tra affollate bancarelle. Privati della tradizione più consolidata, i forlivesi potrebbero cogliere l'occasione per riscoprire degli aspetti poco noti del Santo che il 13 maggio 1727 fu eletto Protettore della Città. In particolare i suoi miracoli di cui qui si propone un minimo e modesto florilegio. Certo, l'argomento è per certuni spinoso (specialmente in tempi di pandemia), per questo, prima di lanciarsi in giudizi, si consiglia di documentarsi sul significato di "miracolo" per la dottrina cattolica. Gli spunti emergono dall'agiografia curata da frate Armadori e pubblicata in Canada nel 1930 (la copertina nell'immagine). Ne derivano informazioni interessanti e storie di speranza, sofferenze risolte, richieste esaudite...  Si riportano, pertanto, di seguito alcune delle guarigioni dell'età moderna e contemporanea attribuite al Santo dei forlivesi conosciuto più nel mondo che dai forlivesi stessi. 

A Sassuolo, nel 1670, il figlio di Cristoforo Mussatti, Giovanni (di tre anni), fu "preso da un attacco apoplettico" a causa del quale "perdette l'uso della favella e di tutta la parte destra del corpo". I medici Alessandro Agnelli e Giacinto Paltronieri "gli applicarono ogni sorta di rimedi" ma alla fine "si dichiararono vinti". Il padre non perse la speranza e gli venne in mente un antico frate forlivese che aveva concesso la guarigione al figliastro Giacomo: ecco, sì, proprio quel Pellegrino Laziosi che dal 1726 sarebbe stato ufficialmente Santo. A lui "fece il voto di portargli ogni giorno sulle braccia per un anno intero il figlio all'altare nella chiesa di Sassòlo". Così iniziò codesta pratica nel maggio di quell'anno. Per i primi tre mesi non vi furono segni di alcuna guarigione fisica, lo sforzo sembrava vano, anzi, le condizioni del bambino si aggravarono. Il 15 agosto, però, di ritorno da uno dei quotidiani pellegrinaggi, Giovanni, "cui s'era ad un tratto snodata la lingua", chiamò la mamma e, "con gran maraviglia di tutti, restando impedito nelle altre membra, cominciò a parlare come ogni altro suo coetaneo". Fu dunque riportato in chiesa e accostato all'altare del Santo forlivese accanto al quale era possibile "vederlo muoversi e fare sgambetti" tanto che "da questa visita egli tornò a casa colle proprie gambe e non sofferse più di quel male".

Nell'aprile del 1688, la signora Francesca Mortani raccomandò suo figlio Antonio Mellini a San Pellegrino. Il bambino era "paralizzato dal ginocchio ai piedi in ambedue le gambe" e "non era mai riuscito, neppur coll'aiuto delle stampelle, a tenersi in piedi". Era stato visitato da parecchi specialisti e nessuna cura aveva dato giovamento. Il 1° maggio di quell'anno, la madre portò il figlioletto da un religioso che "fatto aprire il sarcofago di S. Pellegrino, l'accostò alla cassa interna che ne conservava il corpo" e, dopo alcune preghiere, "gli segnò le parti malate con un berrettino usato in vita dal Santo". Tornati tutti a casa, il bambino si reggeva in piedi. Seguirono altri quattro o cinque tentativi, finché "Tonino fu e restò perfetto camminatore". 

A Città di Castello, Alessandro Boccadori ad appena quattro anni era rimasto "storpio sì da non più muoversi nè reggersi in piedi se non coll'aiuto delle grucce". I genitori le provarono tutte ma seguirono tre anni di sofferenze e di cure inutili. Fu portato perfino al cospetto di un altare dedicato a Sant'Antonio di Padova, ma non vi furono segni di guarigione del corpo e Sandrino tornò a casa con le stampelle. Finché non gli capitò qualcosa di speciale. Era il 1694 quando, entrato in una chiesa, si accostò all'altare di San Pellegrino cui disse: "Fra' Pellegrino, giacchè Sant'Antonio non m'ha fatto la grazia, ecco a voi le mie grucce: a voi le lascio, le pongo qui sul vostro altare: pensateci voi, chè io non voglio più camminare con queste schiacce". Detto, fatto: Sandrino lasciò le stampelle all'altare e uscì dalla chiesa come se avesse sempre camminato sulle sue gambe. Il babbo, rimasto a bocca aperta, gli chiese conto delle "grucce" e il figlio così rispose: "Le ha Fra Pellegrino: le ho date a Lui perché se le tenga". Il fatto fece clamore tanto che ventinove anni dopo sarebbe stato il primo miracolo approvato per elevare agli altari il Frate forlivese. 

Era il luglio del 1700, invece, quando un parroco: don Francesco Armingioni, si trovava a Roma per un pellegrinaggio e, giunto davanti alla Basilica di San Pietro, "venne improvvisamente assalito da un acuto spasimo alla gamba destra". Subito si temette il peggio e già il chirurgo: dottor Agostino Filogeni, stava armeggiando gli strumenti del mestiere. E bisognava fare in fretta a tagliar la gamba, poiché "la carne gli s'imputridiva a vista d'occhio". La paura nel volto del sacerdote spinse il medico a consigliargli di rivolgersi al Taumaturgo forlivese. Così fu chiamato fra Lorenzo Fabbri dei Servi di Maria che segnò la piaga con una reliquia del Santo, subito dopo l'infermo "legò sopra le fasce un'effigie di Lui" fin quando non s'addormentò. Il mattino dopo, "vennero tolte le fasce alla gamba malata, la quale, con grande consolazione di tutti, non solo fu trovata sana, ma rimessa in carne come se nessun ferro l'avesse mai toccata". Ciò che accadde finì nel fascicolo del processo di canonizzazione e divenne il secondo miracolo certificato a vantaggio del Santo Laziosi. 

A una suora romana, Maria Geltrude Valentini, nell'ottobre del 1701 fu diagnosticato un tumore alla gamba sinistra. Inutili furono gli sforzi e la scienza del dottor Bartoli e parve proprio che la medicina poco avesse potuto contro quel male. Il 7 febbraio 1702, la badessa Gesualda le benedisse la gamba con una reliquia di San Pellegrino. In seguito, la suora malata "da mani invisibili si sentì vestire eppoi trasportare dall'infermeria alla porta del dormitorio, dentro il quale, con sua grande maraviglia, vide un Religioso vestito di nero che sembrava aspettarla". La donna in lui riconobbe San Pellegrino Laziosi che "lo sentì farle col pollice destro, tre volte il segno di croce sulla piaga, e l'udì pronunziare queste parole: Levatevi, su, chè siete guarita". La suora, sbalordita, si fece visitare dal chirurgo che "del male non trovò che la cicatrice". Anche codesto accadimento concorse a rendere Santo il nostro Pellegrino. 

Seguono altri fatti simili, come quello avvenuto a Monaco di Baviera ove alla giovane Maria Francesca Haderin, mentre si stava vestendo, "le si conficcò nell'occhio destro un ago lungo circa un dito, che per notevole tempo la privò della vista e le fè giustamente temere di rimaner cieca, perché non ci verso di tirarnelo fuori". Era il 4 maggio 1730. Supplicò il Taumaturgo forlivese e "senza aiuto, l'ago le si sconficcò dall'occhio e cadde a terra, non lasciando la più lieve traccia del suo passaggio". Manca l'indicazione della data per il caso di Armando Ricci, giovane bolognese residente a Forlì che, a causa di "frequenti attacchi epilettici" gli era stata inibita la carriera ecclesiastica giacché "aveva trovata chiusa la porta dei Seminari". Pregò San Pellegrino nel Santuario di piazza Morgagni e "il frutto di quella preghiera fu portentoso", infatti: "non ebbe più a soffrire il minimo attacco di quel male, fu accolto in Seminario, ricevette l'ordine sacerdotale, divenne canonico, e, verso la fine del secolo passato, morì di ottant'anni in concetto di santità". 

Particolarmente dettagliato è il caso di Agatina (Agata Bedeschi di Cotignola). Essa era "delicata di costituzione", più precisamente: "soffriva di violenti attacchi isterici con accessi convulsivi, ordinariamente sull'imbrunir della sera", ma non solo: "secchi ristringimenti alla gola con minaccia di soffocazione" e altro. Era uno "straziante spettacolo il vederla": denti digrignati, "occhi stravolti", una voce "spaventosa" e una forza di "quattro braccia di uomini". Come se non bastasse, dopo due anni "perse l'uso totale delle gambe, e, siccome la pressione delle vertebre sulla midolla spinale le impediva pure di giacere sul letto, era costretta a dormire seduta". Nel 1854, dopo cinque anni di "atroci martiri", indossò "alcuni indumenti benedetti" al sepolcro di San Pellegrino. Poi, visto che stava meglio, ebbe la forza di raggiungere la chiesa di piazza Morgagni a Forlì dove, però, giunse stremata per il viaggio, quasi in fin di vita, il 18 giugno 1860. Si concesse una profonda orazione nel Santuario, fu benedetta da una reliquia del Laziosi e d'improvviso balzò in piedi esclamando: "Son guarita: ho ricevuto la grazia: sia benedetto S. Pellegrino!".

All'inizio del 1893 troviamo una bambina: Maria Gaeta Pineider di Firenze. Ella, a diciotto mesi, "dai medici fu giudicata incapace di camminare speditamente". Scarsi i risultati addotti dalla medicina, e i genitori preferirono chiedere aiuto al Santo forlivese: ben presto la fanciulla "cominciò a camminare con passo fermo e sicuro, e della malattia sparì perfino l'apparenza". Nel 1919, invece, Marcello Pizzuti, bimbo romano di appena tre anni "fu improvvisamente colto da paralisi infantile". Il professor Mingazzini lo visitò presso il Policnico dove gli fu diagnosticata la "poliomielite acuta bifrontale" con "paraperesi flaccida molto accentuata". Per la medicina di allora sarebbe stato inguaribile. Tuttavia a suo babbo venne in mente di recarsi nella chiesa di San Marcello al Corso e pregare la novena davanti all'altare dedicato al Forlivese. Dopo otto giorni, "superando la generale aspettazione, dal letto, dove giaceva immobile, Marcello si levò da sè solo con tutti i segni d'una completa guarigione". Il bambino, però, "per timore d'esser vittima d'un'illusione", fu visitato dal dottor Giuseppe Pecori che, il 25 maggio 1919, "rilasciò un certificato" nel quale si asseriva che non c'era riscontro di "alcun segno obbiettivo" della malattia che lo vessava, ritenendolo ormai "in condizioni fisiche perfette".

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