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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Il sonno dell'eremita albanese

Il 13 aprile 1479 viene collocato il corpo di Pietro Bianco da Durazzo nel sepolcro a Fornò. La vita di un uomo venuto dal mare che fu salutato come un santo dai forlivesi.

Sono passati 540 anni da quel 13 aprile 1479. Un evento importantissimo emozionò la città: il corpo di Pietro Bianco da Durazzo viene collocato nel sepolcro marmoreo che tutt'ora lo conserva a Fornò, nel Santuario di Santa Maria delle Grazie. Il governo, e cioè Pino III Ordelaffi, conosce bene il carisma che il personaggio, anche da morto, esercita sui forlivesi. E anche su se stesso. La traslazione dell'eremita, infatti, fu partecipatissima: due ali di fedeli seguono il feretro portato in processione dalle famiglie nobili e da religiosi, talora la concitazione sfocia in momenti di tensione, per esempio qualcuno sfodera un coltello...

Pietro Bianco da Durazzo, morto due anni prima, era stato sepolto nella Cappella della Madonna del Fuoco, in Cattedrale. I motivi di tanto clamore sta nella storia particolarissima di quest'uomo, acclamato santo già vivente. Era un pirata albanese (così vuole la tradizione), vissuto tra il 1417 e il 1477. Spinto sulla costa romagnola da un naufragio, si avventurò nell’antica Selva Litana, raggiungendo la località di Forniolo con un’icona. Qui si fermò in meditazione. Ecco, secondo le fonti, come si comportò mentre guardava questa terra non sua: scelse un albero e là appese l'immagine sacra. Si mise in ginocchio. La sua rinascita doveva essere anche esteriore: per questo scelse una veste bianca che gli valse l'appellativo “Bianco”, come è ancora noto da queste parti: Bianco da Durazzo. Giunse così candido nella vicina Forlì, era il 1448 quando vi si stabilì in un angusto abituro poi noto come Celletta dello Zoppo. Il pirata convertito, infatti, claudicava. La colpevole trascuratezza dei secoli successivi ha fatto in modo che di questa piccola chiesetta non ne rimanga traccia, era  alla fine dell'attuale via Giorgio Regnoli. Sconsacrata dai francesi nel 1806, divenne proprietà privata e scomparve. Visto che via Regnoli è in fermento artistico da qualche anno, potrebbe dedicare qualcosa a questa figura chiave del Quattrocento forlivese. Qualche riferimento, per riparare al danno di tal Francesco Romagnoli che volle demolire la Celletta. 

Fuori dalle mura, nella campagna allora boscosa di Forniolo, dal 1450 Pietro iniziò a costruire il Santuario dedicato alla Vergine. Così il pirata era divenuto eremita, da uomo di mare a uomo di fede: smise di toccare il denaro, fece prodigi, non volle più calzare i piedi, iniziò a dormire per terra. L'opera fu proseguita da Pino III Ordelaffi e da allora se ne sta lì, in attesa di essere conosciuta. Desta sempre una sensazione di poetico straniamento il Santuario di Fornò, immerso in una campagna che sembra custodirlo con gelosia. L'ideale è raggiungerlo dopo essersi persi in una delle stradine che dalla via Emilia raggiungono il mare; lo si vede lì, inaspettato, placido, curioso. Meriterebbe più fama. Il Santuario, in tale forma, si può considerare unico nell'Europa occidentale: ricorda l'Anastasis che a Gerusalemme custodisce il Santo Sepolcro. Ciò solletica gli amanti della fantastoria, quasi conservasse il Graal. Se ciò non bastasse, sono molteplici le caratteristiche del luogo di culto. La prima è che non è facile trovarlo: si nasconde da oltre mezzo millennio nella campagna forlivese, tra Villaselva e Carpinello. La seconda è la forma che può ricordare un’astronave a pianta circolare; misura 34 metri di diametro. Sintesi di Venezia e di Bisanzio, attrae per la sua originalità quasi eccessiva: un cerchio nel grano, una Stonehenge romagnola dal cuore e dalle radici cristiane. La direzione verso cui guarda Santa Maria delle Grazie di Fornò è il mare, ed è proprio dal mare che venne il suo fondatore. L'aspetto attuale della chiesa risale a qualche decennio dopo la morte di Pietro; è decisamente rinascimentale e vi si riconosce l'estro di Pace Bombace, l'amico architetto di Melozzo. La storia del Santuario, poi, si riassume in preghiera e nel silenzio.

Nel 1506 e nel 1507 fu visitato da Papa Giulio II, affidato ai canonici lateranensi e chiesa e convento furono soppressi dal solito Napoleone. Incuria e degrado segnarono la fine del complesso conventuale già nei primi decenni dell'Ottocento. Se non fosse stato per i mille scudi donati da Papa Pio IX nel 1853, Giacomo Santarelli non avrebbe potuto condurre i lavori di restauro che hanno preservato la chiesa dalla distruzione. Per altro, come sovente si ripete nella storia di Forlì, erano già stati avviati i lavori per la demolizione. L'eremita zoppo, però, lasciò la traccia della sua conversione, benché nel 1870 la cuspide della torre rovinò, benché il Novecento non abbia risparmiato il resto del campanile, o il chiostro di cui sopravvive appena una parte irrisoria. Solo la chiesa rimane, essenziale nella sua rotondità; razionalista ante litteram, si estende con la sua cupola ottagonale al termine di un viale alberato. All'occhio attento, si fa vedere in mezzo alla campagna, altrimenti passa completamente inosservata. Poche sono le indicazioni che guidano gli eventuali turisti al luogo e vi è scarsa e sommaria consapevolezza dell'importanza di un patrimonio simile.

Qualcuno credeva Pietro Bianco un impostore, ma Pino III Ordelaffi lo salvò e, dopo la sua morte, avvenuta il 6 aprile 1477, lo degnò di solenni funerali. La maggioranza dei forlivesi, del resto, lo aveva proclamato santo. Dal 1479 riposa in un prezioso sarcofago nel Santuario di Fornò: chi accosta l'orecchio all'urna, così si racconta, può udire il fragore delle onde del mare.

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