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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

L'eclissi e l'enigma Ordelaffi

Prosperarono facendo il buono e il cattivo tempo a Forlì e in Romagna per secoli. Poi un segno nel cielo e sparirono lasciando molti interrogativi. Qual è stata la loro fine?

Diciamo la verità: cosa sappiamo degli Ordelaffi? Chi conosce qualcosa di storia di Forlì sa che fu una famiglia che resse le sorti della città per secoli. In effetti, con questo cognome si riscontrano vari personaggi che si distinsero fin dal X secolo e li troviamo in più contesti: crociati, Vescovi, cavalieri, Signori. A tempi alterni, certo, perché per governare la Romagna turbolenta bisognava pur sempre chiedere il "permesso" al Papa e per una stirpe ghibellina la via non sarà sempre spianata. 

Già il cognome è particolare, forse di derivazione germanica: ma questa non è sede per discussioni filologiche. Oggi non ci sono più Ordelaffi, e non solo oggi, da almeno seicento anni. Improvvisamente sparirono e la discendenza maschile si estinse - per così dire - col medioevo. Per mezzo millennio furono protagonisti della storia cittadina, per circa due secoli ne furono padroni incontrastati e tutto ebbe termine in gran fretta. 

Ci sono momenti in cui la storia sembra dire basta: così avvenne per la famiglia che affonda le radici in un Allor de Laffia che resse il libero Comune di Forlì tra l'889 e il 910.  A Venezia, un ramo pare che si sia "trasformato" in Faledro, cognome dalla dignità dogale (mutato poi in Falier) che, se letto al contrario, diventa, appunto "Ordelaf". Furono Signori di Forlì, con qualche interruzione, dalla fine del Duecento al 1480, salvo l'effimero ritorno del 1503. Nel 1504 finì tutta la loro lunga storia e con essa quella dei piccoli principati romagnoli ricondotti a Roma da Giulio II, il Papa guerriero. Se la storia avesse preso un'altra piega, se Caterina Sforza si fosse maritata con il rampollo Ordelaffi, forse Forlì oggi non sarebbe biancorossa, ma verdeoro, come il Brasile. Ma la storia ha detto basta ed è stato davvero basta. Così le "branche verdi" (dal blasone con tanto di leone aggressivo) citate da Dante si estinsero come relitti medievali. 

A parte alcune eccezioni non di poco (Scarpetta, Sinibaldo), i nomi di questa nobile famiglia sono molto comuni (Antonio, Francesco, Giorgio), oppure sembrano soprannomi da vicini di casa (Cecco, Pino). La loro corte fu di tutto rispetto, ospitarono a Forlì Dante, Boccaccio, letterati di minor caratura, artisti, intellettuali e gli immancabili astrologi. Per indispensabili approfondimenti si consigliano almeno due testi: "Gli Ordelaffi" di Giuseppe Pecci e "Magnifico Signore" di Sergio Spada. Vi si leggeranno storie decisamente avvincenti, ipotesi di trame o sceneggiature. Ma emblematica è la fine, consumatasi in due tempi. 

Proprio a un evento del cielo pare legato il capolinea. Il 13 maggio 1479, alle 13, per due ore si oscurò il sole nel Capricorno (che l'astrologia sostiene essere il segno zodiacale di Forlì). Pino III Ordelaffi, controverso signore che, nel bene e nel male, aveva comunque dato a Forlì la dignità di una capitale di Stato, subì l'influsso indotto dall'eclissi. Senza dare tante colpe al cielo, vero è che da allora il Signore non conobbe pace, né metaforica, né reale. E iniziò la decadenza che portò all'estinzione del blasone. Giusto per fare qualche esempio: l'estate di quel 1479 portò un'ondata di caldo eccezionale, siccità e una ventina di morti di peste, l'autunno, invece, il terremoto. Trame e intrighi familiari non davano tregua al Signore come quanto stava addensandosi sopra il piccolo Stato: disgrazie varie e la macchina della storia che voleva accelerare la fine del medioevo. E fu anche la sua, di fine: morì il 10 febbraio 1480, a circa un mese dal suo quarantaquattresimo compleanno. Dopo l'invito a cena a casa di Luffo Numai, suo segretario e confidente, aveva accusato mal di stomaco, mal di testa e febbre e, tra riprese e ricadute, terminò la sua esistenza terrena lasciando un testamento non proprio trasparente. Non era mai stato un campione di salute, ma in tempi di "veleno facile"... In ogni modo, gli astrologi gli avevano detto che non sarebbe vissuto oltre il 13 febbraio 1480 già da un po'.

Tanto per amplificare gli interrogativi, si legge che Pino III fu sepolto nottetempo e in fretta (sette ore dopo la morte, cioè alle 3 del mattino), vestito con un saio francescano e collocato in una cappella della chiesa di San Girolamo. Lì era anche stata tumulata la più famosa tra le mogli, Barbara Manfredi. Il sepolcro di lei è stato recuperato e collocato in San Mercuriale, quello di lui, dopo la sciagura della bomba che, a guerra ormai finita, polverizzò la chiesa, è sparito per sempre. Per brevissimo tempo suo successore fu il figlio naturale, l'adolescente Sinibaldo II, sotto la tutela dell'ultima consorte di Pino III, Lucrezia Pico della Mirandola (che non era la madre del ragazzo). La Signora reggente si era rinserrata nella rocca di Ravaldino con il figliastro Signore e, presagendo la fine, colse l'occasione per portar via da Forlì il tesoro degli Ordelaffi (finito chissà dove) e con esso documenti e molti segreti. Nel frattempo si fecero avanti i figli del fratello di Pino III, Cecco III (o Francesco IV), i cugini del Signore ragazzo, colpevole solo di essere un figlio naturale, quindi un "bastardo". Il povero Sinibaldo II morirà il 18 luglio di quello stesso 1480 e così finì anche la reggenza dell'ultima consorte di Pino III il quale aveva avuto anche due figlie femmine che si erano sposate. La discendenza maschile di Cecco III, invece, tirò avanti per altre due decadi.

Iniziò però il ventennio di Caterina Sforza alla cui caduta subentrò la meteora Borgia che lasciò spazio, in seguito, a un effimero ritorno degli Ordelaffi. Ma la storia aveva detto basta. Nel 1488 correva voce che la Tigre di Forlì si sarebbe sposata con Antonio Maria Ordelaffi, uno dei figli di Cecco III: lui (ormai fuori dagli scranni del potere) la corteggiava ma il giovane di buone speranze (mal riposte) ci mise un paio d'anni per capire che il temperamento di Caterina non era proprio facilissimo e che ella proprio non ne voleva sapere, e non voleva neppure che se ne parlasse. Così Antonio Maria tentò la via della congiura, ma fallì e ci rimise Giovanni Solubrino (che doveva essere l'esecutore): impiccato ai merli della rocca di Schiavonia. 

Nonostante l'esilio voluto da Caterina per il rampollo Ordelaffi, la repubblica di Venezia lo mandò a Ravenna proprio per indispettire la contessa di Forlì e da qui proseguirono altri tentativi per cambiare la storia da parte della famiglia verdeoro. Solo Cesare Borgia, il 12 gennaio 1500, stanò definitivamente la Tigre da Ravaldino. Antonio Maria, intanto, si era trasferito a Castrocaro al servizio dei fiorentini e di lì a poco sarebbe rientrato in gioco. Infatti l'esperienza del Ducato di Romagna sotto il blasone dei Borgia ebbe vita breve, sicché l'Ordelaffi, la sera del 22 ottobre 1503, entro in città. Con lui, truppe fiorentine, parenti e amici. Si ammalò ben presto, quindi chiamò in aiuto il fratellastro Ludovico, già al soldo di Venezia. Egli occupò Forlimpopoli il 9 gennaio 1504. Decisamente tardi per la storia: sul soglio di Pietro era salito Giulio II che non aveva fatto mistero del suo desiderio di unificare lo Stato della Chiesa. Così, né con le cattive (assedio di Ravaldino) né con le buone (ambasciata a Roma), gli Ordelaffi riuscirono a strappare al Papa un chiaro assenso sul controllo del piccolo Stato forlivese. Di fatto, comunque, e nonostante la malattia, Antonio Maria continuava a dirigere lo Stato di Forlì come Antonius II Liviae Princeps. Questione di settimane: il 5 febbraio del 1504, al buio del vespro, lo sfortunato rampollo volle far testamento alla luce di numerosi lumi e davanti a otto religiosi. Suo successore sarebbe stato Ludovico ma, quasi presagendo la fine non solo sua, se qualcosa fosse andato "storto", tutti i suoi beni sarebbero andati ai conventi della città. Due giorni dopo spirò, i funerali furono tristemente affrettati e la tumulazione avvenne in Duomo (aveva disposto, invece, di essere sepolto a Fornò). I forlivesi si spaccarono in due fazioni: c'era chi voleva che Forlì entrasse nella Serenissima Repubblica di Venezia e c'era chi, romanticamente, vedeva nel blasone Ordelaffi, buono ormai più che altro per una lastra tombale, il futuro della città. Ambo le fazioni avevano fatto il conto senza l'oste, che in questo caso sedeva a Roma, in San Pietro in Vaticano. Tuttavia, i Morattini, tifosi degli Ordelaffi, si erano impadroniti della rocca di Ravaldino e Ludovico entrò a Forlì il 7 febbraio, perdonando i Numai e tutti gli oppositori. La clemenza gli si ritorse contro, tanto che spuntò a poco a poco una sottile ma inevitabile domanda: e se Forlì, per farla finita con questi continui dissidi, raggiungesse la pace entrando definitivamente nello Stato della Chiesa? Giulio II rispose subito. Ludovico invano chiese aiuto ai veneziani, ormai inguaiati anch'essi, così caddero Forlimpopoli e Predappio. Intanto gli Anziani della città stavano trattando col Pontefice. Ludovico lasciò liberi i forlivesi che si arresero al Papa guerriero, all'Ordelaffi bastò un vitalizio e se ne andò per sempre dalla città nella mestizia della notte del 14 aprile 1504. Si recò a Ravenna, e forse ancora sperava in un ennesimo colpo di scena. Ma morì (forse avvelenato) poco più di un mese dopo; il 29 maggio 1504 si estinse la discendenza maschile delle "branche verdi". Giulio II cedette tutti i beni di Ludovico alla comunità di Forlì dimenticandosi delle donne con quel cognome ancora viventi, alcune in monastero, altre sposate fuori città. Chissà se da qualche parte in Italia, per discendenza femminile, scorra ancora un po' di sangue Ordelaffi. 

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