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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

La Forlì dei mulini nascosti

Economia "sommersa": storia di una città che per secoli ha beneficiato dell'energia dell'acqua. Dov'erano i "molini"? Usi scomparsi da riscoprire.

L'energia a Forlì, fino a tempi recenti, era garantita dalla forza delle acque. Non a caso la città fu all'avanguardia nel creare un'Unione dei Molini, associazione che a fine Ottocento vinse contro il Comune una lite per l'acquisizione della proprietà del canale urbano. Già, Molini o Mulini: la Crusca non dà risposta univoca. Si può notare che la dizione "mulini" è toscana e ha preso il sopravvento: tra Otto e Novecento il termine "molini" era considerato obsoleto e scomparso dal parlato. In Romagna è sempre rimasto, forse a rimarcare un'idea di "mulini" come strutture più grandi, a vento o dalla grande ruota, e "molini" qualcosa di più intimo, ridotto, legato a una piccola economia di una piccola città con piccoli corsi d'acqua. Difatti, a Forlì, quelli lungo il canale sono più noti come molini, forse per più semplice assonanza con la mola. Il sistema dei molini (d'ora in poi si vuole assecondare la dizione con la "o") forlivesi pare risalire al Duecento, quando alcuni erano già in servizio. Un atto capitolare del 31 ottobre 1194, attesta che il podestà di Forlì (dal nome curioso di Rainerius Buccabadocche) rifonde i canonici delle decime di due molini (duorum molendinorum) vicini a San Biagio, dopo che il canale aveva danneggiato quel convento. La questione proseguirà tanto che interverrà papa Innocenzo III che, in una bolla del 1202, espresse l'ultima parola sui molini forlivesi, allora tre. Da atti simili si evince che ce ne potesse essere uno anche in piazza Saffi: il Campo dell'Abate era un terreno lambito dall'acqua. L'Abate di San Mercuriale lamentò l'usurpazione del molino da parte del podestà Malvicino (un Sindaco ante litteram con un altro nome bizzarro) che l'aveva reso una conceria: si risolse con la concessione in enfiteusi del molino in piazza per cento anni al Comune che pagherà all'Abbazia un canone annuale di tre libbre di cera.

Tagli artificiali, motori di ricchezza, sono i paralleli canali di Ravaldino e di Schiavonia. Il primo, più noto, nasce a San Lorenzo in Noceto come deviazione del Rabbi e, dopo aver attraversato Forlì, raggiunge Coccolia estendendosi per venti chilometri fino a immettersi nel Ronco. Il secondo ha origine a Ladino dal Montone e lo si vede in fregio in via Firenze, finisce a poca distanza dal Ponte di Schiavonia, tornando nel Montone dopo meno di sette chilometri. Nel medievo, il canale di Ravaldino non era soltanto una fogna (così com'era visto da chi era nato nella seconda metà dell'Ottocento) ma aveva davvero un ruolo attivo: le sue acque muovevano le ruote dei molini e delle gualchiere; le callegarie (concerie), le tintorie, sono attività che necessitavano dell'acqua corrente del canale. Le botteghe degli artigiani ne traevano linfa per mandare avanti il lavoro. Quando il corso s'arrestava, l'economia si rivolgeva a Faenza, per fare un esempio. Esisteva pure almeno un filatoio per la seta e le sue macchine avevano bisogno, ancora una volta, dell'energia idraulica. Nel Quattrocento, fu scavata addirittura una peschiera nei pressi del tratto vicino a San Biagio i cui proventi andavano alle religiose della Ripa e al mezzadro Giovanni da Sala che doveva prendersi cura dei pesci. La città degli orti non poteva fare a meno del canale tanto che i domenicani provvidero a costruire un canale privato a uso conventuale che iniziava il suo corso al Molino Faliceto. Anche i vicini agostiniani, già nel Trecento, vollero garantirsi una presa d'acqua. L'Unione dei Molini garantirà una pulizia del greto e una regolarizzazione degli argini dalla fine del Settecento, specialmente dei 1895 metri che si snodano dentro il centro storico, necessitanti spesso di cura. Il canale, infatti, sciabordava per lo più tra le case servendo un po' per tutto, d'accordo con l'Eraclito del "tutto scorre". 

Il sistema dei molini a poco a poco si consolidò fino a diventare la spina dorsale dell'economia liviense. A uno di essi, il Molino del Fico, è dedicata una rotonda. Esiste poi, ai Romiti, via dei Molini. La maggior parte di queste strutture, abbandonate da tempo, esiste ancora, camuffate in case o altro. Per esempio, si sa che sul canale di Ravaldino lavoravano i molini: Bastione, Bassa (San Martino in Strada), Del Fico, Primo. Dentro la città, continuando a percorrere il canale, si potevano incontrare il Faliceto (in via Caterina Sforza), Della Ripa, Della Grata (nell'immagine), Pestrino (usato per macinare le vernici della Fabbrica di stoviglie Visani), PelacanoNuovo (nella campagna verso Barisano, antica proprietà Hercolani), Coccolia (di proprietà del Sig. Spadoni). Sul canale di Schiavonia si conoscono quattro molini: San Varano (ancora attivo nel 1925), Serraglio (poi utilizzato dalla Società Elettrica Romagnola), Torello, Ponte. A essi, si devono aggiungere altri impianti più moderni, come il Molino Tesorieri (del 1884), con 4 macine a forza vapore, in cui, nel 1901, venne installato il primo impianto elettrico in Romagna in luogo di quello a vapore. Il Molino Bolognesi (zona San Pietro), fondato nel 1900, macinava 50 quintali di grano a giorno poi, accogliendo motori elettrici, raddoppiò il lavoro. Specifici per i cereali esistevano due molini a Carpinello (1910-11), uno al Ronco (Gardelli Brigliadoro), a Villanova (Bertini), Romiti (Bedei), Villafranca (Cooperativa Coloni), Vecchiazzano (Gatta), Villagrappa (Valpondi). Ma essi, come si può comprendere, erano fuori dal "giro" di quelli sul canale. Dopo gli anni Venti ne sarebbero sorti altri, e a via a via avrebbero chiuso quelli tradizionali. 

Il canale urbano fu tappato in cinquecento anni: il primo tratto coperto fu il Ponte Buio, cioè il loggiato del Municipio, con un'accelerazione decisiva nel Novecento la quasi totalità del tratto cittadino è sotto terra. Scampò un piccolissimo pezzetto, forse per dimenticanza. Negli anni Cinquanta del Novecento fu nascosta la parte a ridosso del Molino Faliceto, su via Caterina Sforza. Questo impianto era appartenuto alla magistratura dei Novanta Pacifici e, prima di essere proprietà dell'Unione, alla famiglia Reggiani. In esso, dopo la dismissione, ha avuto sede una centrale elettrica, una stamperia ad acqua, un laboratorio di ceramica, una falegnameria. Non rimane molto di ciò che fu, dall'aspetto anonimo nasconde una piccola chiusa. I molini in zona San Martino in Strada (Bastione e Bassa) vennero in seguito usati prevalentemente come pilerie di riso, cioè stabilimenti per la lavorazione dei chicchi. Il primo, già inutilizzato nel 1915, sarà riadattato a villa padronale mentre il secondo, nel 1912, fu donato dal Vescovo al Comune. Sempre il Molino Bassa avrà una storia piena di colpi di scena: nei pressi di esso esisteva, nel lontanissimo Decimo secolo, un Molino Punsingoni (che sia sempre lui?). Se nel 1896 era già fermo, nel 1914 venne riattivato per i cereali: un generatore di corrente ad esso applicato fornirà energia elettrica a tutta San Martino in Strada. Di proprietà Ordelaffi è il Molino del Fico, che ancora fa una certa figura dove viale dell'Appennino incontra viale Risorgimento. Passerà poi al Municipio e nel 1407 era di proprietà Pantiroli. Chiamato anche Molino delle Banzole, o Banciole (Molandinum Bazolarum) fu anche degli Accarisi di Faenza. Alla fine dell'Ottocento fu massicciamente rimaneggiato: se ne andarono le vetuste macine di pietra, sostituite da macchinari più moderni che poi saranno venduti cent'anni dopo (nel 1990) e inviati in Bosnia. Nonostante la grave perdita, occasione mancata per conservare almeno uno dei molini com'era, rimane integro l'edificio che conserva ancora un certo fascino. Sarebbe opportuno allestire un Museo delle Acque Urbane? Sicuramente sì, sebbene alla voce "museo", a Forlì, ci sia già tanto da riscoprire e progettare. 

Il Molino Primo, detto anche Rustigliano, esisteva già nel Quattrocento, in una Caiossi ben lontana da quello che appare ora. Il salto di 3,50 metri consentiva un lavoro che si è arrestato nel 1984. Si hanno tracce addirittura dal 1212 del Molino Ripa, sull'omonima strada vicina a via Silvio Pellico. Era del Municipio, quindi, nel 1285, dei Canonici di Santa Croce. Fu proprietà del Vescovo dal 1432 al 1641. La sua gloriosa carriera di macina per cereali (nel Quattrocento ne aveva due) cessò nel 1893 quando divenne una centrale elettrica. Nel 1901 era una conceria di pelli, ora è innestato nel complesso dei Salesiani. Tra via Molino Ripa e via Luigi Nanni (quella del Teatro San Luigi) scorre l'ultimo tratto aperto del canale di Ravaldino. Alla fine della parte urbana del corso d'acqua, sorgeva una chiesa preziosa e ricca. Come parecchi altri luoghi di culto forlivesi, fece una fine pessima: dissacrata nel 1774 da un sequestro di truppe spagnole di passaggio a Forlì, sarà poi chiusa dai francesi di Napoleone alla fine del Settecento. Il cittadino Giacomo Cicognani acquistò la struttura, atterrò il campanile e rese quella che fu una chiesa, un magazzino di legname. Visto che lì accanto passava il canale, il nuovo proprietario, Domenico Casamorata, volle trasformare ciò che rimaneva in molino. Era il 1811 e così nacque il cosiddetto Molino della Grata la cui presa d'acqua, fatta il 26 dicembre 1899, servirà allo zuccherificio Eridania ogni anno per due mesi da agosto. Ora resta la testimonianza di una macina in pietra (accanto all'omonima pizzeria) e una struttura più recente che ne conserva pressoché solo il ricordo. Pur costituendo una sorta di rete viaria alternativa, il secolo Ventesimo chiuderà il capitolo - non solo romantico - delle acque a cielo aperto preoccupandosi in modo certosino di nascondere ogni tratto di canale, pensando che piuttosto che dedicarsi alla cura e alla pulizia dell'acqua, si facesse prima a chiuderlo sotto l'asfalto. Ci si può chiedere se il secolo Ventunesimo abbia la stessa opinione sull'acqua in città, visto che si rimane a bocca aperta quando, a Bologna, si scorgono scarsi ma suggestivi tratti liquidi tra le case o, a Treviso, pulitissime vie d'acqua con flora e fauna tra graziosi ponticelli in centro storico. I maggiorenti forlivesi del tardo Ottocento guardavano con diffidenza l'antico serpentone che si snodava da Ravaldino alla Grata perché scolo di ogni rifiuto umano e non solo, veicolo privilegiato per malattie, luogo pericoloso e di inappropriate balneazioni, nudità scandalose, schiamazzi volgari e olezzi sgradevoli. Operazione coraggiosa e controcorrente (è proprio il caso di dirlo) sarebbe oggi riaprire, dove possibile, dei tratti.

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