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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

La Forlì ostile a Napoleone

Episodi poco noti riguardano la folgorante discesa di Bonaparte in Romagna. Depredazioni, spoliazioni e ribellioni. A molti forlivesi, i francesi vanno sempre di traverso.

Lorenzo Bofondi, chi era costui? Il nome non dirà nulla nemmeno a chi mastica (bene o male) la storia locale, eppure si tratta di un "resistente" mica da poco. Infatti, il periodo napoleonico a Forlì resta piuttosto controverso: se ne conoscono più i meriti. Ma i forlivesi del tempo, cosa ne pensavano? Ecco allora emergere questo personaggio che ha consegnato il suo nome alle cronache solo per un fatto, e un fatto esemplare, misconosciuto e interessante. Si vada in ordine: già nel maggio del 1796 Bonaparte è a Milano, in pochi giorni le sue truppe saranno in Romagna (il 24 giugno a Porta Schiavonia). L'invasione non sarà certo indolore e innescò un astio antifrancese nelle persone semplici; se non fosse intervenuto il vescovo Mercuriale Prati forse si sarebbe ripetuta la mattanza del "Sanguinoso mucchio". Così, a poco a poco, quasi nascosta tra le pieghe della storia, fa capolino un aspetto davvero inaspettato per la città di Saffi e la Romagna in generale che fu tanto controrivoluzionaria da meritarsi il nome di "Vandea d'Italia". 

Finora, infatti, la storiografia non ha indagato molto questa forma tumultuosa di reazione, preferendo dare per scontato che Napoleone, tra i romagnoli, fosse stato accolto a braccia aperte come un liberatore. Vero è che si tratta di un periodo complesso: da un lato la "Romagna Napoleonica" (con epicentro proprio in Forlì), attrasse borghesi e aristocratici, anche in incognito, da altrove, che forse avevano conti in sospeso con la Santa Sede. La "zona franca", anzi, francese, però, non fu l'età dell'oro. Dell'oro, sì: furono svuotate le casse pubbliche ed ecclesiastiche. In dieci anni scomparvero almeno diciannove chiese (nel senso che furono proprio demolite) all'interno della cerchia urbana, alcune di esse erano testimonianze di cinque secoli di storia e scrigni di opere d'arte che, talora, valicarono il monte Bianco. Altri luoghi di culto divennero granai o magazzini, stalle: umiliata la fede popolare in ogni modo, s'impose quella giacobina dell'Albero della Libertà. Potevano i sanguigni romagnoli stare zitti? 

I testimoni del tempo raccontano come la gente comune vedesse questa prepotente sferzata della storia come una vera e propria calata di Brenno, di barbari. Il bottino fu incalcolabile. Poi c'erano ceti intellettuali che apprezzavano. Il comando francese era sull'attuale corso della Repubblica, nel già Albergo della Posta (ora sede di una banca), un reggimento di sessanta dragoni si era sistemato a Schiavonia. Dopo i primi anni scioccanti, si arrivò a uno stemperamento delle tensioni e a un'istituzionalizzazione di cose che oggi diamo per scontate ma furono proprio una novità introdotta dai francesi come il Codice Civile, il divorzio (lettera morta, allora, da queste parti), l'Ufficio del Registro, provvedimenti in materia di igiene pubblica, il cimitero in periferia... Quando però, nel 1814, Pio VII liberato fece visita a Forlì non si avvertivano molti pianti. 

Tuttavia pare interessante indagare su quegli anni di transizione: dal 1796 al secolo XIX. Già il 30 giugno 1796 si registra un'insurrezione a Lugo, una settimana di ribellione antirepubblicana (i francesi avevano messo a sacco la città allora sotto il controllo di Ferrara, "prelevando" 800mila scudi, trafugando oggetti preziosi, profanando reliquie). L'anno successivo, sempre a Lugo, i giacobini innalzarono l'Albero della Libertà (simbolo delle virtù rivoluzionarie) ma sarà bruciato dai lughesi due anni dopo. Forlì, benché più tiepida, non fu da meno. Del resto: chi potrebbe sopportare una tale violenza militare? Il "lupo cattivo" di questa che non è una favola si chiama Charles Pierre Augereau, generale e maresciallo di Francia. Nell'ultima settimana di giugno del 1796 percorreva la via Emilia e il peso che dovette sopportare Forlì dal suo passaggio fu ingente: spoliazione del Monte di Pietà e requisizione di tutte le armi da depositare immediatamente in Municipio. Così si presentava la "Libertà, Uguaglianza, Fratellanza" da queste parti. Siate convinti che la nostra intenzione è di sollevare l'indigenza ed evitare l'ingiustizia prometteva Augereau; non fu molto convincente. Ben presto fu impedito ai sacerdoti di assicurare il viatico ai defunti, furono proibite le processioni, furono legate le campane. Subito molti forlivesi tentarono di farsi giustizia da soli, assalendo il Municipio per riprendersi le proprie armi. Le magistrature cittadine, tra cui il gonfaloniere conte Gnocchi, si adoperarono per calmare le acque; le armi furono restituite mentre i francesi spaventati si erano ritirati a Faenza. Un'altra insurrezione scoppiò, sempre a Forlì, poche settimane dopo poiché Il 6 luglio 1796, i mercuriali avevano visto uscire dalla città carri stracolmi di oggetti preziosi, opere d'arte, casse di denaro in direzione Francia. Un disordinato tumulto provò a fermare il corteo ma si risolse con qualche sparo e qualche incarcerazione.

Napoleone, dunque, capì che se avesse voluto domare questo territorio recalcitrante, sarebbe dovuto venire di persona. L'occupazione francese aveva fatto scappare diversi cittadini, gonfaloniere compreso, pertanto Bonaparte entrò a Forlì il 4 febbraio 1797: era una città indifesa, spogliata, alle prese con la festa patronale della Madonna del Fuoco. Non a caso il Corso scelse quel giorno. Con la Giunta di Difesa Generale, Napoleone s'insediò in palazzo Gaddi che vide un susseguirsi di maggiorenti locali ossequiosi nei confronti dell'eroe Bonaparte. Il 27 febbraio sarà ufficializzato l'accorpamento della città alla Repubblica Cispadana. Così inizia a Forlì l'età contemporanea: vengono aboliti i titoli nobiliari, i feudi sono soppressi, oscurati gli stemmi gentilizi, innovazioni. Qualche settimana dopo, i notabili locali plaudivano all'innalzamento dell'Albero della Libertà proprio davanti alla colonna della Madonna del Fuoco, nell'allora piazza Maggiore. A poco valsero i messaggi rassicuranti in francese e in romagnolo: la gente non gradì. Tanto che un giovane operaio, Lorenzo Bofondi, si trovò ad essere suo malgrado un capopopolo. Si diresse verso la colonna della Madonna del Fuoco per intonare canti della devozione e fu seguito da una folla pacifica in preghiera. Tutti questi "pericolosi controrivoluzionari" furono caricati dalla cavalleria francese, con pestaggi e violenze d'ogni sorta. Che fine fece Lorenzo Bofondi? Fu costretto ad attraversare i quattro rioni della città a cavalcioni di un asino, a torso nudo, con un cartello sul petto ove si leggeva: sollevatore e ribelle. Per completare la gogna, un tizio in costume da Arlecchino si prendeva beffe di lui e lo fustigava. 

In ogni modo, il 19 aprile 1797 Forlì accoglie la sede dell'Amministrazione centrale dell'Emilia assicurandosi un ruolo di capitale. Anche questa fu una scelta bizzarra: era vista come città depressa economicamente, pur essendo ferace aveva il popolo per metà formato da una turba di questuanti ed oziosi che sono il continuo tormento (...) del governo. Si ammette, ben presto, che spogliando le chiese dei beni ecclesiastici si era creata una voragine di miseria. Tuttavia si afferma un ceto borghese arricchito da queste spoliazioni, ceto che poi fornirà le vertebre alla spina dorsale del Risorgimento. Tra Alberi della Libertà e roghi di simboli nobiliari, nell'inverno del giacobino 1797 altra esacerbazione giunge dal regolamento della polizia del commissario Lej: ogni manifestazione doveva essere controllata nel suo significato repubblicano mentre occorreva vigilare sulle omelie dei presbiteri. Furono poi esplicite anche le misure di giustizia, atte a privilegiare il Governo e i Difensori della Patria. Nel 1798 si registra un ennesimo tumulto forlivese contro le truppe cisalpine acquartierate nella Rocca di Ravaldino tanto che dovettero intervenire i rinforzi da Faenza per non ricoprire di vergogna i francesi. 

Così si precipitò in un clima da guelfi e ghibellini, cose simili si vedevano nei secoli precedenti, a stento sedate dai XC Pacifici (aboliti dai francesi), e nel secolo in arrivo, l'Ottocento, quando lo scontro senza alcuna parvenza di diplomazia avveniva tra anticlericali e papisti. I "democratici" presero a eliminare croci e simboli religiosi. La "maggioranza silenziosa" uscì dal silenzio e osò sfidare il pensiero dominante. 
I francesi al potere, per placare gli animi, arrestarono i provocatori a loro affini ma ciò non bastò ad abbassare la temperatura. Nel 1799 ebbero la meglio (cosa di breve durata) gli austriaci che entrarono in una Forlì allo sbando: subito iniziarono le vendette contro i giacobini e le cronache del tempo hanno tramandato i nomi di Staitino, Moro di Ventura, Serafino il molinaro quali masanielli liviensi. Saccheggi alle case dei filofrancesi furono all'ordine del giorno, come gli arresti, i falò dei simboli repubblicani. Tanto che addirittura il vescovo Mercuriale Prati cercò di sedare la vendetta. 

D'altra parte, molti sacerdoti (un po' alla don Abbondio, un po' per convinzione) adulavano Napoleone e smisero di suonare le campane. Nel 1804, infatti, venne assegnato ai parroci il compito di tenere tranquilla la popolazione onde evitare che nei timidi idioti (sic!) con la loro cieca credulità venisse voglia di tornare allo status quo ante Napoleone. Fatto che ancor di più fece imbestialire la gente che arrivò a minacciare di fucilare quei preti che si fossero piegati alla convenienza. Tali episodi furono frequenti specialmente nelle campagne o nei paesi di collina: Forlì, ormai capitale istituzionale, sembrò a via a via accondiscendere alla forza. L'usanza degli Alberi della Libertà (sovente dei pali addobbati con le simbologie rivoluzionarie) si rinnoverà all'epoca della Repubblica Romana (1849). Anche nel 1989, per ricordare l'anniversario rivoluzionario, ne fu issato uno in piazza Saffi e fu rievocato pure il 4 giugno 2011, in occasione del "Pranzo Patriottico". 

Di tutta questa storia, sia che si simpatizzi per Bofondi, sia che si simpatizzi per Bonaparte, c'è un punto, urgente, in comune: il recupero di palazzo Gaddi, patrimonio indispensabile della storia cittadina da diversi anni in condizioni di grave degrado. Occorre intervenire prima che i danni siano irreversibili. 
 

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