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Giovedì, 18 Aprile 2024
Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

La fornace che fece il parco

Un rudere dalla storia lunga su cui occorre con urgenza intervenire, a due passi dal grande polmone verde della città. Che vicende si nascondono all'ombra della ciminiera?

Non so chi legge, ma chi scrive tende il più possibile a preservare il suo patrimonio, di qualsiasi valore si tratti. Pare non andare allo stesso modo quando il patrimonio appartenga alla pubblica cultura, alla storia urbana, nonostante ufficiali riconoscimenti. Un esempio sotto gli occhi di tutti coloro che approfittano di quest'avvio di primavera per recarsi al Parco Urbano è la Fornace Maceri Malta. Un rudere dalla storia lunga su cui occorre con urgenza intervenire. Forse qualcuno avrà notato, ai bordi del parcheggio dell'ingresso che conduce alla Collina dei Conigli, una struttura fatiscente con una ciminiera (una delle ultimissime rimaste in Forlì). Si tratta, appunto, della Fornace, nome di per sé quasi metafisico e che fa venire in mente che, il buon Verzocchi, commissionò per la sua quadreria donata alla città e conservata a Palazzo Romagnoli “La Forgia di Vulcano”, a firma di De Chirico. Già l'imprenditore mecenate si arricchì col laterizio ed ebbe la geniale generosità di donare ai musei civici la sua personalissima e originale raccolta d'arte. Altri collezionisti potrebbero seguire il suo esempio.

La città di mattoni affonda le radici nell'etrusca (?) Ficline, città dei vasai, come forse dalla misteriosa gente italica era chiamata Forlì prima di essere Forlì. Uscendo da fasi oscure della storia, è documentato che più o meno a metà dell'attuale Parco Urbano si estendeva già nel Duecento un convento di camaldolesi, forse una delle tappe dei pellegrini che dal mare si recavano a Camaldoli. Non doveva essere una pieve di campagna di scarsa importanza se, anche nell'Ottocento, via Caterina Sforza era detta “dei Camaldolesi”. Le ultime tracce del luogo di culto, già in rovina nel Cinquecento, risalgono al 1791, quando ciò che ne rimaneva (una chiesina) dopo un effimero restauro fu cancellata negli anni successivi. Permase solo, dunque, un vasto terreno di pertinenza conventuale sulla cui area sorse, nel 1826, la Fornace.

L'industria, articolata in due corpi principali: l'impianto di cottura con ciminiera, appunto, e il capannone della produzione, era servita dal canale di Ravaldino e il suo lavoro modellò la superficie irregolare dell'attuale Parco Urbano. Perché, per centocinquant'anni, quel terreno fu una cava, una zona da cui estrarre materiale di ottimo livello. L'industria conobbe tempi di gloria specialmente con l'introduzione, tra il 1870 e il 1880, del sistema Hoffmann a ciclo continuo. Per i profani, il “forno Hoffman” è un impianto per produrre laterizi formato da due gallerie affiancate. Esse, divise in quattro zone (di carico/scarico, di preriscaldo, di cottura, di raffreddamento), sono affiancate e chiuse senza però escludere il passaggio dei gas dall'una all'altra. Nuove tecnologie svecchiarono la struttura nel 1920 ma, non permettendo un lavoro automatizzato, la fabbrica divenne antiquata fino a cadere in obsolescenza nel secondo dopoguerra e chiudere quel po' che ne rimaneva nel 1971. Si può notare, per “anagramma di cifre”, che se il 1791 segna l'inizio della fine del luogo di culto dei camaldolesi, il 1971 è l'ingresso del tunnel che ancora non vede la luce per l'industria del laterizio forlivese.

Da allora, la città di mattoni si è dimenticata della fabbrica di mattoni che ha avuto, se non altro, il merito di plasmare il Parco Urbano e di fornire laterizi per le case forlivesi. Oppure si è ricordata di tanto in tanto, ma i risultati sono visibili da chicchessia. Negli anni Settanta (quando sarebbe costato ben poco sistemare il sistemabile, in quanto tutto era ancora ben in piedi) si vagheggiava di conservare le strutture esistenti per adattarle a un uso sociale e culturale. Lettera morta. Negli anni Ottanta si tentò un recupero per una sede museale dedicata al grande naturalista forlivese Pietro Zangheri (la cui raccolta, tuttavia, è andata a finire a Verona ove rimane - geograficamente incomprensibile – il “Museo di Storia Naturale della Romagna”). Anche in questo caso non se n'è fatto nulla. Estrema ipotesi: farne casa del Museo Etnografico. Nulla si è mosso.

Anzi, sì, con il secolo ventesimoprimo è crollato il capannone della Fornace che oggi appare come rudere illeggibile. Al grave episodio seguì un sollecito intervento di copertura dell'impianto di cottura, sperando che la ciminiera regga. Così, nell'immagine, si scorge qualcosa di apparentemente “sistemato”, in realtà basta allargare lo sguardo per vedere degrado e desolazione: una specie di Eridania in scala ridotta, a conferma di una colpevole e generalizzata noncuranza verso l'archeologia industriale della città. Eppure la Fornace, come si è letto, non merita la totale sparizione perché la sua storia è davvero lunga e importante per la città di Forlì. Senza di essa, anche il paesaggio, da quelle parti, sarebbe radicalmente diverso. Dalle mappe del catasto napoleonico si nota un terreno tendenzialmente pianeggiante e soggetto a frequenti alluvioni (non erano presenti argini); la parte verso il ponte vecchio sul Rabbi, verso Vecchiazzano, fu venduto dai camaldolesi a Gaetano Pasqui per diventare sede di sperimentazioni agricole (arachidi, luppolo, barbabietole da zucchero) e di una fabbrica di birra. La parte verso la città, invece, è ciò che ora è frequentato come Parco Urbano e molti ignorano che i saliscendi non sono naturali, ma frutto di un continuo lavoro della terra per alimentare quell'impianto di cottura ora nascosto da una transenna e dalla vegetazione.   

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