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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

La prima repubblica forlivese

Nell'889, Forlì si resse a Repubblica, una micronazione che se esistesse tutt'oggi sarebbe la più antica del mondo. L'episodio segnerà profondamente il carattere della città.

Chi pensasse che quest'articolo tratti di vicende novecentesche sbaglia. Perché per “prima repubblica” forlivese s'intende un momento misterioso della storia della città, per il quale bisogna fidarsi di storici non sempre rigorosissimi in quanto si va così indietro nel tempo da sentire i brividi.

Un passaggio apparentemente banale, quando si vogliono spiegare i motivi che ornano lo stemma, s'incontra quando si parla del “secondo uovo”, quello con la scritta “Libertas”. La spiegazione che ne viene data è sempre sbrigativa: nell'889, allorché si erse per la prima volta a repubblica (l'ultima fu, per un breve periodo, nel 1405), ribadì il nuovo status dotandosi di uno scudo bianco con apposta la scritta Libertas. Prima di quella data, lo stemma della città sarebbe stato un semplice “scudo vermiglio” (poi crociato e conservato nel primo “uovo” ghermito dall'aquila sveva su campo oro). Difficile trovare chi vada oltre queste due righe, eppure, se si fosse conservata una “Repubblica di Forlì”, sarebbe stata molto più antica della vicina San Marino. L'esperienza, dicono le fonti, durò circa mezzo secolo, ma anche quest'asserzione è un azzardo. Non fu una cosa effimera né una cosa duratura, ebbe un ruolo decisivo per la storia della città, come si spiegherà poi. Singolare è l'uso del termine “Repubblica”, raro e inusitato a quel tempo, su calco della res publica romana più che sulle attenzioni democratiche. Resta il fatto che da lì e per più di mille anni i forlivesi saranno infatuati dalla parola “repubblica” e l'Edera attecchisce ancora in non pochi circoli, caso pressoché unico in Italia. Altra caratteristica della generalità dei forlivesi è il loro spirito ghibellino. E proprio così nacque il piccolo Stato. Se oggi esistesse, sarebbe considerata una micronazione. Venezia, tanto per fare un esempio che poi tornerà utile, in quell'889 era un ducato retto da Pietro Tribuno, sarà Serenissima Repubblica solo dal 1148. 

Che cosa accadde? Immaginarsi Forlì a quel tempo è pressoché impossibile (non c'era neppure l'Abbazia di San Mercuriale, ma una basilica più risalente), la sua collocazione geografica era un'ottima calamita per qualsivoglia guerra. Caduti gli ultimi orpelli dell'Impero romano, coi bizantini che resero la Romània altra cosa rispetto alla Langobardia (dall'Emilia in su), fondato un nuovo - e sacro - impero carolingio, Forlì si trovava a essere al centro di molteplici interessi e - in buona sostanza - terra di nessuno. 

Due sono i personaggi chiave della vicenda (anch'essi sfumano nel mito): Berengario e Allor de Laffia. Si dice che Berengario discendesse dalle famiglie longobarde superstiti di Forlì ma è pressoché certo - come in altri casi - che si confonda Forlì con Friuli, in latino non c'è molta differenza. Vero è che fu Marchese del Friuli per poi assurgere al titolo di Re d'Italia e Imperatore dei Romani, benché sia vissuto nel pieno dell'anarchia feudale, decenni in cui si andava rafforzando il potere temporale pontificio. Vero è che fu in Romagna, in occasione di una guerra contro Guido di Spoleto. A raccogliere i cocci del Regno d'Italia del fu Carlo Magno intervenne, tra gli altri, infatti, il nostro Berengario che gli storici locali lo fanno presenziare a Forlì nell'889, in occasione di uno scontro con i bolognesi. Paolo Bonoli è il primo che sembra mettere le mani avanti:

Trovasi questo Berengario, come ancora il secondo essere stati di schiatta forlivese; ma io (giacchè scopro alcuni come dubbiosi), spogliato dall'amor di patria, allegherò solo le autorità che ciò confermano.

Berengario, poi, in quanto ambizioso nel ricucire l'Italia, sarà un personaggio caro al Risorgimento e quindi anche ai forlivesi. Vero è che a quel tempo esisteva la famiglia Berengari a Forlì e questo sicuramente ha creato non poca confusione. Bonoli, per corroborare il suo pensiero, cita un testo: il Dittamondo di Fazio degli Uberti, ove Berengario (e discendenza, il secondo) è citato come Forlivese. Nella Sala del Consiglio Comunale (nella foto), si nota la riproduzione di un'antichissima scrittura (così scrive Bonoli) che mostra essere stato forlivese, e diademato da Sergio III Papa. Lo storico secentesco sa di avanzare un'ipotesi bizzarra (che il coevo Marchesi conferma) ma qui non ha senso vagliare tale argomento. Si narra invece che, mentre le famiglie potenti si erano ritirate, per quieto vivere e per evitare rogne da anarchia feudale, nei loro castelli (i Calboli a Calboli e Rocca d'Elmici; gli Orgogliosi a Collina, Belfiore e Meldola e, guarda caso, i Berengari a Castrocaro e Monte Poggiolo), i bolognesi, volendo sfruttare l'occasione di una Forlì disabitata e alla mercé di chiunque, provarono a impossessarsene con sotterfugi. Ma Superbo Orgogliosi, Francesco Calboli e Berengario Berengari uscirono dalle loro rocche per difendere la città. Fu eletto “capitano reggente” Berengario, giovine di gran coraggio ed ingegno. Vi fu quindi come una "sbornia da libertà": Tanto fu il desiderio di mantenersi liberi, che le matrone stesse fecero dono de' preziosi arredi o loro abbigliamenti; costituendo una somma, che, per modo di dire, avrebbe bastato per centomila persone. Fu così che Berengario chiamò a sé un capitano tedesco, tale Allor de Laffia e, con altre genti, che costituivano un corpo di diecimila uomini d'arme, levò di primo tratto Cesena ai bolognesi. Così nacque la Repubblica di Forlì che doveva occupare un territorio comprendente, appunto, la capitale Forlì, poi verso le colline fino a Colmano e Ladino, verso il piano cioè Poggio (o si tratta di Monte Poggiolo?), e Cesena. Si suppone anche tutto quello che vi sta in mezzo. Berengario, però, fu richiamato ubi maior quale Re d'Italia e dovette abbandonare Forlì lasciandola ad Allor de Laffia (lo si trova scritto in altri modi). Costui sarebbe il capostipite degli Ordelaffi ma ebbe scarsa fortuna: sposò la figlia di Berengario per dar senso al suo ruolo, forse si atteggiò a “Tarquinio il Superbo” servendosi della sua posizione antipapale e i forlivesi lo cacciarono. Riparò a Venezia, città che in effetti – Ordelaffi regnanti – mantenne stretti rapporti con Forlì. La sua prole, in Veneto, preferì invertire il cognome in Faledro (se letto al contrario è Ordelaf) e si riscontra, tra i dogi, un Ordelaffo Faledro, o Faliero, o Falier.

Per ricordare a tutti che comunque il reggente era il distante Berengario, Bonoli forse s'inventa un'iscrizione che un tempo era collocata su Porta Cotogni (Divus Berengarius Imp. Aug. / Moenia Vallumq. Forlivio Patriae / Pientissimus dedit anno Imp. III). La cosa bizzarra è che Forlì, a quel tempo, pare che non avesse le mura di cui parla l'iscrizione ma una palizzata di legno. Potrebbe anche così esser definita moenia, cerchia muraria? Sì, forse; del resto a quel tempo non c'erano tanti esempi in muratura e forse si tratta della citazione di una concessione di una qualche forma di difesa contro l'avanzata degli Unni e dei Saraceni. Ma è un tempo troppo lontano per snocciolare certezze.

Se Allor de Laffia se ne andò nel 910, gli Ordelaffi tornarono pochi anni dopo in città. Sotto il regno di Berengario III, nipote del presunto forlivese, il clima cambiò. Secondo il giudizio di Bonoli non era molto simpatico: per essere crudele sacrilego ed avaro, fu la rovina della dignità imperiale in Italia, e lo stabilimento della sede in Germania. Questo Berengario era inviso anche alla Chiesa: i vescovi romagnoli (Pietro di Ravenna, Apollinare di Forlì, Gherardo di Faenza, Arnaldo di Forlimpopoli) chiesero al Papa Agapito di far intervenire il tedesco Ottone che ebbe via spedita per conquistare il Regno di Berengario, ciò ch'era rimasto (se qualcosa era rimasto) della Repubblica di Forlì, riportando la Romagna a un ordine che consegnò chiavi in mano al papato. Era il 953. Cosa permane di questa vicenda? Un particolare dell'araldica civica, come detto, e il fatto che tutti gli episodi successivi della storia della città saranno scanditi per secoli dagli stessi cognomi, dal medesimo spirito isolazionista ghibellino, dalla Libertas in salsa repubblicana, dalle soverchierie di Bologna, dalla diffidenza nei confronti del Pontefice, da questa incapacità politica di rendere Forlì una vera e propria capitale se non per esperienze poco durevoli, anche quando se lo sarebbe meritato a pieno titolo. E, intanto, il tempo ha sbiadito quasi del tutto quest'antica storia. 

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