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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

La scoperta del Pestapevar

Nel 1857 fu staccata l'insegna di un'antica spezieria: un misterioso affresco del Quattrocento che per decenni sarà icona della forlivesità. Oggi merita una riscoperta.

Forlì vanta la più importante insegna commerciale. Lasciando in sospeso il superlativo assoluto, bisogna indicare dov'è. Adesso? In Pinacoteca. Originariamente? Si sa che fu trovata in corrispondenza dell'attuale civico 6 di corso Diaz. Si tratta di un affresco alto un metro e mezzo e largo uno. Nel 1857, Filippo Fiscali lo rimosse dal muro di una vecchia bottega della Congregazione di Carità su Borgo Ravaldino: il locale fu venduto e il dipinto fu acquistato dal Comune. Lo stabile, anticamente, era il fòndaco del Provveditore di spezierie di Girolamo Riario e si sa che sulla facciata un tempo arabescata, attorno all'affresco si notavano stemmi dei Riario e degli Sforza. Lo stesso Fiscali, restauratore, si prese cura dell'opera nel 1885. Un più recente restauro risale al 1994, per mano di Ottorino Nonfarmale. 

Il Pestapevar (questo il nome dato all'insegna) rimase in una cassa fino al 1861, quando venne finalmente esposto nella scuola di Belle Arti. Fu un grande successo che fece detonare la domanda: chi lo dipinse? Mutuando un'antica "voce", in quegli anni chiunque scioglieva l'equazione: Forlì e Quattrocento cioè Melozzo. Si è dato per scontato che l'intonaco staccato fosse opera della mano del grande pittore di cui nella città natìa, dal 1944, non è rimasto nemmeno un frammento. Nel dipinto che mostra i segni del tempo si svela il volto popolare di un uomo ossuto, capelli corti ed escrescenze in viso, orecchie importanti, intento con impeto a fare il suo lavoro di garzone di una spezieria. Le gambe del pestapepe sono nude, il volto è concentrato mentre lo sguardo è fisso sugli attrezzi del mestiere. L'incarnato della figura di tre quarti è bruno chiaro, le ombre sono scandite da una tinta scura. La sua veste è un po' bigia un po' senape ed è cinta a metà della vita, raggiunge le cosce e lascia intravedere la camicia. Impugnando la mazza di ferro con vigore, sembra sbilanciarsi molto in avanti. L'impatto è parecchio espressivo; pare di aver già visto il volto, vivo, al mercato o in qualche circolo. Questa scena di lavoro pare racchiusa, nel suo spazio rettangolare, in una finestra, tanto che si scorge sul fondo un cielo azzurro.

A questo misterioso personaggio, tra Otto e Novecento furono dedicate diverse iniziative: un giurneal in dialetto che e gosta dis ciantisum (rivista satirica fondata da Aldo Spallicci, poi più avanti un foglio letterario in italiano). Prendevano il nome di Pestapevar anche un Politeama (anzi, due: uno in piazza XX Settembre, l’altro su quella che adesso è via Mercuriali), una Società con sede in palazzo Albertini. A proposito: Ludovico Albertini fu lo speziale più influente di Caterina Sforza, quello da cui la Tigre di Forlì imparò tanto esercitandosi nel suo erbario dentro la Rocca di Ravaldino. Albertini fu uno dei pochissimi forlivesi che non l'abbandonò nella disgrazia, testimoniando fedeltà alla Signora anche durante l'esilio fiorentino. Grazie ai segreti dello speziale, Caterina, col suo estro, lambiccò oltre quattrocento ricette di medicina, chimica e cosmesi. Tra esse si legge di uno strano intruglio per guarire ogni tipo di febbre, come? Polverizzando in un mortaio sterco di lupo seccato al sole per farlo poi bere al (povero) infermo in brodo di carne. Infatti, Pestapévar sarebbe oggi tradotto con farmacista, ossia speziale. In tempi recenti, un ristorante di viale Salinatore aveva preso questo nome. A parte tale eccezione, oggi la memoria del Pestapevar sembra sbiadita come l'affresco che lo contiene. Sarebbe bello se qualcosa, in città, lo ricordasse per la valenza simbolica e identitaria del Cittadone distratto. Se qualche locale, se qualche locanda prendesse il suo nome... Del resto, una figura protesa verso il lavoro, attaccata ad esso, competente senza boria, non può che far bene.

Il pepe era raccomandato per il suo alto potere calorifero, i mercanti della spezia si arricchivano facilmente. Per le sue proprietà digestive, migliorerebbe il metabolismo e sarebbe un valido amico per chi segue una dieta dimagrante. Infatti, stimola la secrezione di succhi gastrici e collabora all'assorbimento dei nutrienti. Inoltre, secondo la medicina antica, è un alimento afrodisiaco, ha proprietà antisettiche ed espettoranti, contribuisce all'aumento di endorfine diventando un antidepressivo naturale. Tra le altre virtù attribuite al pepe ci sarebbe anche l'efficacia nel contrastare disturbi come la vitiligine e l'acne se applicato sulla pelle. Detto questo, si capisce perché il Pestapepe fungeva da insegna per una spezieria

Storicamente l'affresco è sempre stato attribuito al Melozzo, da diversi decenni, però, l'ipotesi è passata in secondo piano in quanto la maggioranza degli addetti ai lavori non riscontra nell'acceso realismo popolare dell'antica insegna le delicatezze angeliche del Pictor papalis. Così la prestigiosa firma, allora prevalente, oggi è residuale. Infatti, lo si indica eseguito da un generico Maestro romagnolo influenzato da Francesco del Cossa e pare ascrivibile agli anni Settanta del Quattrocento. Nel Seicento, Francesco Scanelli aveva attribuito con certezza a Melozzo la meza figura che, impugnando energicamente il pesante ferro provocava meraviglia nel passeggere che si ritrovava nella via Maestra vicino alla Piazza. Da allora, una considerevole quantità di studiosi anche importanti assegnarono al Pictor papalis l'opera, in particolare afferente alla sua ultima produzione. Nel 1898, Giovanni Battista Cavalcaselle asseriva che la figura a grandezza naturale era la sola in Forlì che sembrò mostrasse caratteri da potersi attribuire a Melozzo. Il primo ad avere dei dubbi su tale paternità fu Roberto Longhi nel 1927 che ascrisse l'affresco all'area ferrarese e, nel 1934, indicò il nome di Francesco del Cossa. Ma qui occorre concludere con, più che un punto, un punto e virgola. 

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