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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Il pugno prima del calcio

Nello sferisterio di Forlì spopolava il "giuoco del pallone": sport ben diverso dal calcio. Perché il capoluogo romagnolo ha completamente rimosso la "palla col bracciale"?

Insomma, aggrappata a improbabili ripescaggi, la Nazionale azzurra non sarà in Russia ai Mondiali di calcio. Ma se si fa un salto di qualche decennio addietro, ecco che si scopre come il mondo, anche sportivo, fosse radicalmente diverso. Il calcio, pur esistendo già, prese piede (è proprio il caso di dirlo) con la fine della Grande guerra. Chi fu vittima delle trincee? Un suo lontano parente, chiamato giuoco del pallone. In realtà la parentela è molto lontana, ma ancora oggi ci si confonde: giocare a pallone significa giocare a calcio. Non era così cent’anni fa, anzi. Il calcio era uno sport che aveva attecchito nelle grandi città che amavano, come si fa adesso, scimmiottare con esterofila invidia i club inglesi. Oppure nei campetti di periferia per chi ha buone gambe e poche risorse. Sport che provocava passioni viscerali, da queste parti, era il pallone, o la palla col bracciale. Al contempo cosa ruvida e signorile, pertanto singolare: si trattava di una specie di ibrido tra il tennis e la pallavolo. Ancor più singolare il fatto che dopo la Prima guerra mondiale scomparve senza lasciare traccia, segno che la cesura tra Otto e Novecento si sarebbe compiuta proprio nel 1918. E fu netta. Del 1919 è il Forlì Calcio, e inizia una nuova storia. 

Il giuoco del pallone non aveva bisogno di uno stadio, ma di uno sferisterio. I forlivesi che letteralmente impazzivano per questa disciplina agonistica non potevano nemmeno immaginare che di lì a qualche decennio sarebbe scomparso tutto: il tocco secco delle palle di cuoio sui bracciali in legno, le grida dei tifosi accalcati in platea e loggiato, le fantasmagoriche volate, lo sferisterio stesso (ora, mutilo, è un mesto parcheggio). E pensare che tra le statue del Foro Italico, quella che rappresenta la Provincia di Forlì è proprio un giocatore di palla col bracciale. 

Nella Forlì presto capitale dello sport 2018, l’amministrazione, a più riprese e a bocce ferme, pensò di disfarsi perfino delle vestigia di quello che era definito lo sferisterio più bello d’Italia. Inspiegabile mistero di una città la cui mancanza di memoria e di amor proprio desta sempre più preoccupazione. Nelle località dove si è conservato integralmente, è un gioiello di archeologia sportiva. Si estendeva a ridosso delle mura di viale Corridoni e si appoggiava alla Barriera Vittorio Emanuele. Era una lingua di terra battuta tra le due circonvallazioni di allora, la esterna (oggi viale Corridoni), e la interna (un tratto scomparso iniziava dal lato opposto di via Nazario Sauro da corso della Repubblica, proseguiva per via Porta Cotogni e arrivava alla Rocca). L'attuale parcheggio è parte di quel campo, le mura lungo via Porta Cotogni furono drasticamente abbassate pochi decenni fa. 

Fino al 1823, si giuocava al pallone sull'attuale piazza Morgagni, stadio ante litteram per la palla col bracciale. Ancor prima nel cortile di palazzo Monsignani. Eh già, perché la tradizione di questa disciplina sportiva è antichissima, affonda le radici nell'antichità classica consolidate nelle corti rinascimentali. Fino all'età vittoriana degli inglesi pedestri, l'Europa preferiva giocare a palla con le mani. In particolare il pallone, come la pallacorda, era praticato dapprima da nobiluomini nei cortili dei palazzi aristocratici, poi da borghesi e popolani sulle piazze per poi acquisire sempre più popolarità. L'abilità dei giocatori nell'addomesticare (con un pugno appuntito di legno) una sfera di cuoio e scagliarla con vigorosa precisione da una parte all'altra di un campo rettangolare, ammaliava le folle. Tra la fine del Settecento e gli inizi del secolo successivo, con la costruzione degli sferisteri, con la codificazione delle regole, con l'organizzazione delle partite e il conseguente diffondersi del professionismo, il pallone assurse al ruolo e all'importanza di sport nazionale acquisendo altresì le caratteristiche dello spettacolo come lo intendiamo oggi. Migliaia di persone in molte città italiane affollavano gli sferisteri per poi, tutt'a un tratto, sparire fino a rendere questo sport residuale e solo in alcune località. Forlì volle fare le cose in grande e iniziarono a disputarsi partite nel campo sull'attuale viale Corridoni, uno dei più grandi sferisteri d'Italia, inaugurato ufficialmente il 30 maggio 1824. Il campione Carlo Didimi (citato anche da Leopardi) vi aveva stabilito un nuovo primato nel lancio della palla

Lo sferisterio forlivese era lungo 99 metri e largo 12, aveva un campo di gioco diviso a metà da una corda rossa sollevata da terra. I due lati lunghi erano il muro d'appoggio (le mura quattrocentesche rialzate fino a raggiungere i 12 metri) e un muro inferiore detto cordone. I due lati corti erano destinati agli spettatori (seduti su scalinate e panche di legno) e protetti da reti. Per chi se lo poteva permettere, verso Porta Cotogni, c'era una tribuna a loggiato. Il trampolino del battitore era nella parte nord del campo, addossato al muro puntellato dai ricordi (iscrizioni lapidee) che celebravano alcuni fasti, come quello di Bianchini e Fabroni (1858), Mazzoni (1896), Monteverde (1920) e altri: a proposito, che fine hanno fatto questi manufatti?

I pallonisti, vestiti elegantemente di bianco (camicia, calzoni al ginocchio e calze lunghe) con una cintura rossa o di altri colori, potevano - se particolarmente dotati - riscuotere somme di denaro simili agli ingaggi degli attuali calciatori. Stringevano, tra il polso e la mano, un manicotto (il bracciale) di noce munito di sette cerchi dentati (per un totale di 105 punte). Un attrezzo del genere poteva superare il chilo di peso. La palla era a otto spicchi e, sebben fatta di pelle di manzo, ricordava una pallina da tennis. Nell'immagine: un battitore sul trampolino (archivio Macrelli).  

Sul campo, protetto da un appoggio (a Forlì erano le mura quattrocentesche), si contendevano tre giocatori per squadra: il battitore, la spalla e il terzino (ruolo poi rubato dal calcio). Chi iniziava il gioco? Il battitore sul trampolino che doveva battere la palla lanciata dal mandarino (altro giocatore, che il nome del frutto derivi dal pallone?) con tempismo perfetto per meglio individuare il punto d'impatto col bracciale. Spalla e terzino rimandavano la sfera. Il battitore doveva correre incontro alla palla colpendola col bracciale rilanciandola verso gli avversari che a loro volta potevano rilanciarla, lasciarla rimbalzare a terra o sul muro d'appoggio. Il punteggio (vinceva il primo che superava i 40), si attribuiva: se il pallone oltrepassava di volo il limite del campo avversario ma entro limiti segnalati da paletti (la volata), se il pallone non era raccolto dall'avversario una volta superata la metà campo, se l'avversario gettava il pallone fuori dai lati maggiori, se l'avversario non mandava il pallone oltre la propria metà campo. Di volta in volta si assegnavano punti suddivisi a via a via in 15, 30, 40. Al quarantesimo o al cinquantesimo, la squadra vinceva il gioco. Ogni tre giochi si cambiava campo e una partita consisteva in sedici giochi. Il tutto poteva durare delle ore. Il pubblico restava a bocca aperta per le volate, scroscianti applausi, entusiasmo a rasentare il fanatismo, tanto che l'impresa veniva scolpita su lapidi affisse al muro d'appoggio. 

Mentre si esaltavano le lodi del mandarino Sfitè o del terzino "anguilla" Martini, su Il Risveglio del 2 agosto 1902 si legge: "Nessuno conduca bambini lungo il giuoco, e ciò per evitare gravissime disgrazie; per i ragazzi vi è la loggietta dalla quale possono vedere senza pericolo, perché difesi dalla rete". Infatti, questi spettacoli di grazia ruvida facevano furore a Forlì e tracce sono presenti nella stampa dell'epoca: ne La Lotta di Classe del 31 agosto 1912, oltre a lodare lo sferisterio forlivese come "imponente", si annuncia una tre giorni di "grandi sfide tra i campioni del bracciale", una specie di finale nazionale dopo le selezioni di Firenze e Milano. Ne Il Pensiero Romagnolo del 27 aprile 1913 si avverte: "Ai molti amatori del giuoco del pallone, Il Consiglio della Forti e Liberi rende noto che prossimamente verrà inaugurata una sezione nel proprio seno per lo sviluppo di questo re dei giuochi". Inoltre, si legge che lo "splendido sferisterio sarà messo in condizioni ottime". Poi: "Per gli amanti del giuoco del pallone" si legge nel medesimo periodico "il 28, 29 e 30 giugno (1913) allo sferisterio saranno presenti giocatori distintissimi: Donatello Bellini, Aristide Giappetti" i quali, "grazie alla fama di battitori celebri, si ripromettono di fare memoria". Il pubblico guardava con brustoline, lupini e vino: c'erano gli scalmanati, i timorosi delle pericolose volate, le signore benvestite. Infine, per precisare di quali "gravissime disgrazie" potesse cagionare il giuoco, si segnala che nel luglio del 1914, mentre lavorava "nell'orto Zanotti adiacente al Gioco del Pallone, l'ortolano Galassi Luigi" fu colpito "da un pallone sfuggito per un falso colpo al di sopra dell'alto muro che separa il giuoco dalla strada. Il povero Galassi fu trasportato all'Ospedale in gravi condizioni, ma i medici non disperano di salvarlo". Negli anni della guerra fu anche luogo per altri tipi di adunanze: si sa che nel marzo e nel settembre del 1916 fu la sede del Giuramento del "Corpo dei Giovani Esploratori". Nel 1924 fu teatro di un estremo lancio di Enrico Collina che, con una maestosa parabola, eguagliò o quasi il primato di cent'anni prima per mano del citato Didimi. 

Ora, se il football albionico ha preso letteralmente piede fino a dare all'Italia quattro coppe del mondo, nei sotterranei sportivi continua, in alcuni borghi, la tradizione del pallone col bracciale, specialmente nelle Marche. Nel 1992, si è costituito il Comitato Nazionale del Gioco del Pallone col Bracciale, con lo scopo di promuovere il recupero storico e culturale del pallone attraverso mostre, convegni e pubblicazioni e di propagandarne l'aspetto agonistico mediante l'organizzazione di partite dimostrative, di tornei e di un campionato nazionale. Perché Forlì non partecipa? Perché non c'è - a quanto pare - un'associazione sportiva forlivese che ne voglia rivisitare i fasti? La tradizione, qua, è stata cancellata misteriosamente in un lampo: sarebbe bello riscoprire questo sport che aveva in Forlì un perno nazionale. O, per lo meno, sarebbe il caso di ricordare con un monumento decoroso (magari simile a quello che orna il Foro Italico) questa passione forlivese, nei pressi del negletto sferisterio. 

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