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Venerdì, 19 Aprile 2024
Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Quando una selva copriva Forlì

Punto di convergenza tra Etruschi, Umbri e Galli, la Forlì preromana era composta da una serie di villaggi all'ombra di una fitta boscaglia, in più tratti resa paludosa dagli irrequieti corsi d'acqua senz'argine. Cos'è rimasto della "città silvestre"?

Punto di convergenza tra Etruschi, Umbri e Galli, la Forlì preromana era composta da una serie di villaggi all'ombra di una fitta boscaglia, in più tratti resa paludosa dagli irrequieti corsi d'acqua senz'argine. Cos'è rimasto della "città silvestre"? Fitotoponimi e boschi relitti. Nulla di difficile, occorre andare per ordine.

Le frazioni cittadine, spesso e volentieri, traggono il loro nome da vegetali (pertanto si tratta di fitotoponimi). Evidenti sono il caso di Carpena e Carpinello (ci sono alberi che si chiamano carpini). Nell'immagine il grande platano orientale che chiunque può notare sulla Cervese, all'altezza di Carpinello. E che dire della Pianta, il cui nome è diventato indelebile forse grazie a un'antichissima quercia che, fino al 1880, cresceva vicino alla chiesa parrocchiale? Poi è ben chiaro Villa Rovere (da qualche anno è scomparsa, come altrove, la "Villa" e la località viene indicata solo con Rovere): laddove si manifesta la presenza - anche qui - di robuste querce, lungo quelli che tempo fa erano i confini col Granducato di Toscana. Altra frazione verde è San Lorenzo in Noceto, così chiamata perché secoli fa le famiglie vivevano in un luogo circondato da un folto bosco di noci. Più prosastico è Villa Selva (anche questa località adesso è nota solo come Selva). Forse perché qui si estendeva la misteriosa Selva Litana, cara ai Galli? In ogni modo, adesso c'è una foresta di capannoni industriali e uno scalo merci con tanto di stazione ferroviaria (che prende il nome di "Villa Selva" quando forse sarebbe più opportuno, visto che è quasi tutta su territorio comunale, chiamarla "Forlì - Selva"). Più azzardato è scovare grappoli in Villa Grappa, etimo che comunque rimane incerto. 

Più defilata ma molto più a tema è la frazione di Ladino, suggestiva propaggine della città oltre Vecchiazzano dalla lunga storia. Vi aveva sede un castello di origini romane (Castel Latino), distrutto nel 670 dai longobardi che lo riedificarono. Nel 1170 era feudo del conte Uberto di Pitignano. Passò poi agli Ordelaffi e fu atterrato dai faentini nel 1201. Sui suoi resti si costruì la pieve dedicata a San Martino. Proprio qui si estende la siba di Ladino, cioè un bosco relitto, un fossile vegetale di come doveva essere il territorio della Forlì di millenni or sono. Lo scampolo di cinque ettari, dunque, deriva dalla selva primigenia della pianura forlivese e si trova brutalmente tagliato dalla strada per Castrocaro. Collocata a 65 metri sul livello del mare con pendenza del 10% è un'area di riequilibrio biologico tutelata da un'ordinanza comunale. Nella selva si possono riconoscere specialmente roverelle alte circa 15 metri, poi olmi, aceri, sorbi, robinie, ontani, biancospini, prugnoli, ligustri, rose canine, caprifogli, viburni, rovi, sambuchi. Se sembra poco, si ricordi che è stato riconosciuto come Sito d'Importanza Comunitaria quale lembo residuo di bosco planiziale. Qui si possono trovare anche specie non comuni come la rosa di San Giovanni, la vescicaria o l'asparago a foglie tenui. Lungo il fiume Montone gli alberi diventano più imponenti e soprattutto si osservano farnie secolari e pioppi bianchi monumentali. Insomma, vale la pena esplorare il bosco a due passi dalla città con una visita guidata. 

Altre selve storiche o boschi relitti si trovano a Ravaldino in Monte (su via La Scagna), con le solite roverelle e, similmente, a Farazzano, con cerri e querce. Non lontano si estende la superficie arborea di Scardavilla. Ve ne sono altri, di minori dimensioni. Chi ha occhio, avrà notato che gli alberi, a causa dell'abbandono di molte e ancestrali pratiche agricole, stanno tornando alla riscossa, riconquistando i margini della periferia della città. Altra zona significativa e protetta, senza avere la pretesa di essere una selva, è l'Oasi di Magliano, tra Carpena e il Ronco. 

Con l'arrivo dei romani e la "rivoluzione ecologica" della centuriazione, la vasta selva cedette il passo a più razionali e squadrate coltivazioni, nuove colture per un più efficace sfruttamento delle potenzialità del suolo ferace. Il territorio, dunque, diverrà artificiale, ospitando, tra l'altro, le villae, cioè borghi rurali. Via canneti, via alberi, via paludi, via dossi scomodi: è la pianura romagnola che conosciamo. Così i piccoli boschi citati rappresentano una testimonianza importantissima di qualcosa che adesso sarebbe inimmaginabile. In realtà, questi boschi relitti erano molto più estesi fino a tutto l'Ottocento quando fungevano da ricetto per banditi o poco di buono. In seguito, per le esigenze termiche degli abitanti vicini durante i ruvidi inverni delle guerre mondiali, molti alberi caddero per poi far posto a colture intensive. Solo alla fine del Novecento si arresterà l'assottigliamento del polmone antico, in particolare il Comune acquistò la selva di Ladino e una fascia di terreno latistante per ampliare la superficie boschiva tanto che ora sembra lo sfondo per un finale da melodramma antico, nel quale tutti i personaggi convergono in una foresta dove riconoscono se stessi e gli altri. E Dante che da Ladino passò, non scrisse forse di essersi smarrito in una selva oscura? Sarebbe suggestivo se la citazione riguardasse il bosco forlivese, cosa del resto non improbabile in quanto già il fragoroso sciabordio della cascata dell'Acquacheta venne usato come termine di paragone, sempre nell'Inferno, per il rumore delle acque del fiume Flegetonte dal Sommo Poeta. 

Ora, con un patrimonio botanico così ingente, occorre rammentare che il "Bosco Livio" merita ancor più un occhio di riguardo. Specialmente anche in riferimento a grandi studiosi come Cesare Majoli e, in tempi molto più recenti, all'illustre naturalista Pietro Zangheri, morto quasi centenario nel 1983. La casa che fu di questo grande cittadino è tra corso Diaz e via Trento, immersa nel verde ma desiderosa di cure. Spiace concludere con una punta di amaro: il prezioso Museo di Storia Naturale della Romagna, che occasione perduta! Paradossalmente, per miopie o gravi omissioni, è a Verona. Se le selve sembrano riappropriarsi delle periferie urbane, pare opportuno il ritorno dell'importante collezione di Zangheri nella sua Forlì. 

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