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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Un ospedale per gli sfollati

Per pochi mesi in un palazzo forlivese fu allestito un nosocomio per i feriti della seconda guerra mondiale. Affidato ai salesiani e volontari, era intitolato a San Giovanni Bosco.

In via dei Mille c'è un palazzo che ha una lunga storia di cambiamenti: di aspetto, di destinazione, di nome. Si fa notare per la facciata piuttosto imponente rispetto ai vicini della strada larga e per le due sfingi incombenti che accompagnano all'ingresso. Alla vista è tutt'ora come si osserva nella foto di quel tempo: sì, tra il 1° ottobre 1944 e l'8 maggio 1945 lì vi era l'Ospedale "Don Bosco". Eppure il palazzo, nella storia, sembra imitare a sua volta le bizzarrie dei camaleonti: la facciata sontuosa è settecentesca benché rimaneggiata nel 1926 con l'uso di pietra artificiale. Il risultato è un connubio tra due secoli, sia all'esterno che nelle decorazioni interne. 

Per quanto riguarda le destinazioni d'uso, dapprima fu sede delle terziarie francescane; per breve tempo, in seguito, fu casa dei conti Guarini e dal 1815 venne abitato dai Benzi, tanto che il suo nome più comune è, appunto, Palazzo Benzi. L'edificio curiosamente ha saputo ospitare anche una fabbrica di coperte di seta, fino a diventare proprietà della famiglia Silingardi. Quindi fu acquistato dall'Opera Nazionale Balilla su indicazione del suo presidente Renato Ricci. Quando sarà stato costruito l'Ex Gil, il palazzo si trasformerà nella Casa della Giovane Italiana. Prima di diventare, per lunghi anni, sede della Democrazia Cristiana (vi aprì perfino una discoteca), negli ultimi strazianti mesi di guerra fu - come detto - ospedale. Un ospedale consacrato al Sacro Cuore dai sacerdoti salesiani. Così, a occhio, guardando l'angolo con via Fossato Vecchio sembra venire alla mente (in tono minore) il corrispettivo del Palazzo del Merenda tra corso della Repubblica e via San Pellegrino Laziosi, già ospedale. Su iniziativa di don Pietro Garbin, pertanto, si allestì una casa di cura gestita da volontari per rispondere alle necessità legate al momento bellico. Ecco, quindi, un breve sunto di una storia non sufficientemente ricordata. 

Convocata una riunione in Prefettura il 30 settembre 1944, si stabilisce che l'ospedale in progetto dipenderà dal Medico Provinciale (dottor Pantaleoni), sarà adibito per soli ammalati sfollati o feriti e sfollati. La direzione sarà affidata a don Garbin, direttore dei salesiani, con responsabilità spirituale, morale, economica. Il futuro pronunciato in tale seduta però sarà ben presto presente. L'organizzazione e l'allestimento furono velocissimi (qualche ora) e già il giorno successivo era tutto pronto. In esso, oltre a Pio Pantaleoni, operavano altri medici tra cui Paolo Minucci e Gino Laschi, primario radiologo di Bologna. I professionisti prestavano gratuitamente il loro lavoro ed erano affiancati dalla Croce Rossa, da suor Eleonora, suor Gisella e altre quattro religiose di Maria Ausiliatrice. Erano presenti infermieri per gli uomini e infermiere per le donne. Altri dottori si unirono nell'opera, sempre con generosa gratuità: si citano i nomi di Ugo De Castro, Mario Loreti, Luigi Barchi. Addirittura - così si ricorda - il prof. Loreti si cimentò in un'operazione ulcero gastica pagando perfino il viaggio al degente. 

L'ospedale Don Bosco ospitava 120 persone e, in tempi in cui era difficile reperire alimenti, alcuni possidenti locali si prodigarono per fornire bestiame da carne e latte. Del resto, difficile capire in quei mesi chi comandava e l'unica autorità efficace era probabilmente la generosità dei forlivesi. Nei giorni orribili in cui il vicino San Girolamo in San Biagio è reso polvere con buona pace dell'arte forlivese, i silenziosi volontari dell'ospedale sfollati e sinistrati assicurano circa duemila minestre al giorno. Su suggerimento di mons. Ferdinando Baldelli, presidente della Pontificia Commissione di Assistenza, si gettano le basi per una sezione forlivese della stessa: sarà presieduta dal vescovo Giuseppe Rolla. Dal canto suo, papa Pio XII avrà parole di lode per quest'iniziativa. C'è però lo scacchiere internazionale che inevitabilmente cambia: sicché don Leo Coppo diventa interprete per le cause politiche, cioè sarà il tramite fra le autorità alleate e italiane. L'assistenza dell'Ospedale Don Bosco si occuperà anche di altro: procurerà permessi di viaggio, per i trasporti, per la circolazione notturna dopo il coprifuoco, diventando un vero e proprio sportello informativo e capace di disporre di documenti per favorire i rifugiati.

Nel gennaio del 1945, il Don Bosco viene requisito dal Governo militare alleato come Ospedale da Campo 92 pur conservando la sua vocazione volontaristica, in particolar modo per quanto concerne l'infermeria. Sarà così dotato di 14 autoambulanze che smistano infermi emiliani, romagnoli, marchigiani. L'intermediazione di don Leo Coppo, quindi, fu un'ottima carta per ottenere dagli americani farina, marmellata, fagioli, zucchero, latte in polvere, tè, caffè, servizi logistici e mezzi di altro genere. Chiunque avesse avuto la casa distrutta dalle bombe avrebbe meritato ricetto in questo palazzo, e così fino alla fine della guerra. L'8 maggio 1945, infatti, l'Ospedale da Campo 92, ossia Don Bosco, si trasferirà a Padova da via dei Mille, 8. Finirà così questa curiosa storia di generosa carità. Ora la sede di questa istituzione, oltre a meritare l'interesse storico artistico della Soprintendenza (conserva opere d'indubbia importanza, vuoi del Settecento vuoi del Novecento), deve rimanere nel cuore e nella memoria dei forlivesi per aver alleggerito le sofferenze a parecchi derelitti. 

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