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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Una Tigre contro il mondo

Forlì è assediata. Dopo venticinque giorni di difesa e resistenza, il 12 gennaio 1500 cade la Rocca di Ravaldino, estremo baluardo dello Stato di Caterina Sforza.

La Rocca di Ravaldino merita un'adozione. Da tempo sembra sotto assedio, circondata da una rete da cantiere. Un fragile e pudico monito per un monumento che merita molta più attenzione. In attesa di capire quali saranno le idee per quando il carcere avrà lasciato la Cittadella (sembra che la cosa sia affidata a nomi noti) si spera che la memoria non evapori e che la futura destinazione tenga conto del valore storico del vasto fortilizio. Perché nei primi giorni di gennaio del 1500, anziché da plastica arancione, Rocca e Cittadella erano circondate da soldati di varie nazionalità. Un mondo contro Ravaldino. E' bene che i forlivesi ricordino un episodio epico consumato nella Rocca che, silenziosa, chiede urgenti interventi di restauro e una più decorosa destinazione (potrebbe, per esempio, ospitare delle esposizioni permanenti come l'Armeria Albicini). 

Oltre all'incuria dell'oggi, ne ha passate di peggio. Per esempio, per venticinque giorni fu un punto cruciale della storia europea. La storia si stava adoperando nello spazzare via il medioevo e le connesse piccole autonomie signorili che si barcamenavano tra Franza e Spagna appoggiandosi altresì vuoi a Milano, vuoi a Roma, vuoi all'Austria per un complesso gioco di alleanze. Italiano di sangue spagnolo ma francese per titolo e simpatie era Cesare Borgia, Duca di Valentinois, in confidenza Il Valentino. Con un progetto veloce quanto il tempo che gli era dato, l'operazione "asso pigliatutto" voleva rendere amministrativamente omogenea la Romagna, e finalmente suddita del Papa (suo padre). Si può dire che ci riuscì. Quando fu il turno di Caterina Sforza, Signora di un territorio discontinuo, intervallato da Faenza, tra Imola e Forlì, si trovò davanti un osso duro, e lo sapeva. Di diverso carattere, lungi dai più scontati stereotipi, i romagnoli - imolesi e forlivesi - che calarono le braghe subito, al primo vessillo francese in lontananza. In effetti le poleis romagnole erano considerate fuori dal tempo: che fare contro l'esercito di Francia benedetto dal Santo Padre? Infatti, Imola non oppose resistenza e aprì le porte a Cesare Borgia per evitare saccheggi e altri abomini confacenti al periodo. Pochi giorni dopo anche Forlì, la preferita, fece una figura simile. Se gli imolesi avevano immediatamente deciso di abbandonare ogni forma di resistenza, i forlivesi tentennarono un po' anche perché ospitavano la Signora, non certo clemente quando i torti della storia le si stagliavano contro. Caterina chiese al popolo di Forlì se avesse preferito la difesa (e quindi un assedio) o la resa perché è pur sempre meglio uno Stato rovinato di uno perduto. Queste belle parole valsero ben poco. Erano già state avviate le trattative di resa: i forlivesi firmarono un inutile patto che scongiurava saccheggi e ladronerie, ma fidarsi dei francesi fece sì che poi quanto scritto divenne carta straccia e ogni casa fu predata. In città di lì a poco avrebbero bivaccato soldati papalini, francesi, svizzeri, tedeschi.

Nessuno osò dirlo o rispondere a Caterina, perché il silenzio comune era chiaro segno che nessuno sentiva il desiderio di imbracciare le armi e resistere in un'impresa velleitaria, impossibile, non era il momento per un altro Sanguinoso mucchio. La Signora, dopo avere urlato addosso ai forlivesi chiamandoli conigli, fece un'indagine sullo stato delle sue fortificazioni, raggiunse per esempio Forlimpopoli. Si preoccupò che la famiglia fosse al sicuro a Firenze. Poi prese la decisione di concentrare tutte le difese sulla Rocca di Ravaldino, dove si rinserrò, tra il Paradiso e la Cittadella, un'isola di apparente felicità sospesa in un non-tempo. Nel medesimo luogo, nell'Ottocento, si penserà di costruire le patrie galere. Fece abbattere i ponti della Cittadella e si chiuse dentro. Là fuori, a Forlì, Luffo Numai con un accorato discorso annunciò al popolo che la città aveva un nuovo Signore, le campane della torre civica suonarono a martello l'ora della codarda rassegnazione. Forlì così sguarnita, il 19 dicembre 1499 fu fatta sua dal Valentino. Ravaldino no, e Borgia invano cercò di trattare. I due non si sopportavano (c'è chi vede un complesso rapporto di odi et amo) e l'uno appose una taglia sull'altra, viva o morta che fosse, favore ricambiato dalla Signora con la stessa moneta. Più o meno diecimila ducati.

Il Natale del 1499 vide concentrarsi in città una congerie di armati di varie nazioni saturare Forlì con l'unico obiettivo di espugnare Ravaldino. Caterina Sforza, sola contro il mondo, riuscì nell'eroica impresa di resistere diversi giorni. La Tigre di Forlì rifiutò diverse offerte di pace che avrebbero salvato lei e i suoi figli. Cesare Borgia mandò in ambasceria il balì di Digione, il generale Yves d'Allegre e il duca di Vendôme. Niente di fatto: Quanto ho detto al principale, vale pure per l'accessorio. Un estremo tentativo toccò al Valentino, ma pare che un disguido lo abbia fatto imbestialire: si racconta che per errore, con una manovra del ponte levatoio, sembrò che l'intento fosse quello di imprigionare il Borgia (forse lo era davvero). Seguirono scuse, ma il Duca reagì confermando la taglia su Caterina Sforza e dando il via a una serie di bombardamenti con sette cannoni pontifici verso il Paradiso, il palazzo sontuoso all'interno della Rocca che la Tigre di Forlì ebbe eletto a dimora. L'esercito di Caterina rispose al fuoco con altro fuoco ma nonostante il fracasso e le morti, dentro la Cittadella si balla e si suona. Si trova il tempo pure di scrivere messaggi ironici e beffardi sulle palle di cannone che da Ravaldino cadono sugli assedianti. Del resto, il contesto è orrendo: era un inverno pungente, i francesi razziavano tutto con violenza e bestialità. Molte furono le vittime tra le fila dell'esercito del Borgia che non riusciva a smantellare le difese della Rocca. Il manipolo di Caterina riparava nottetempo ciò che di giorno veniva distrutto. 

Nella prima settimana di gennaio del 1500, il lato della Rocca verso la collina era preso di mira da sedici bocche di fuoco per più giorni di continuo; Cesare Borgia aveva ordinato ai forlivesi di procurarsi addirittura due barche per allestire un ponte sul fossato. Tutto inutile, Ravaldino era imprendibile. Finché si aprirono, sul muro lungo l'attuale via Giovanni dalle Bande Nere, una serie di squarci che compromisero irrimediabilmente la difesa. I soldati del Valentino coprirono il fossato con fascine per facilitare il passaggio. Il 12 gennaio 1500 la capitolazione: rapidamente Borgia prese i rivellini della Rocca mentre Giovanni da Casale, castellano e consigliere di Caterina Sforza con la mansione di coordinare la difesa, commise una serie di errori e pasticci (dolo o colpa?) che condussero in breve tempo alla fine. Nell'ultima ora, la Tigre di Forlì uscì dal mastio con la spada in pugno indossando una tunica gialla a coprire la corazzina, affrontava il nemico corpo a corpo. Incitava a combattere e i suoi fedelissimi, benché nella disperazione, la seguivano. Le balenò l'idea di apporre un'ultima cortina di difesa con legna che avrebbe fatto ardere, un muro di fuoco. Però il vento le dà torto: soffia contrario e il fumo va negli occhi degli assediati. L'ultima parte della Cittadella a cadere è il rivellino che ora si nasconde tra la vegetazione della palazzina della Medicina del Lavoro in via della Rocca. Giovanni da Casale, senza nulla dire a Caterina Sforza, issò una duplice bandiera bianca. La giornata definitiva si concluse con la resa della Tigre: Signor duca, io sono con te disse appena catturata, pronunciando una frase ambigua che pare veleggiare tra l'ironia e il sarcasmo. Si dichiarò prigioniera dei francesi, giacché in Francia era illegale avere donne tra i prigionieri di guerra. Non le andò bene nemmeno quest'ultima trattativa sebbene sarebbe stata risparmiata la vita a lei e alla sua famiglia.

Giovedì 24 gennaio 1500 uscì da Porta San Pietro per non fare mai più ritorno a Forlì. Era diretta a Roma, da Papa Alessandro VI che l'aveva chiamata Figlia della perdizione. Cavalcava il suo cavallo bianco, indossava un abito di raso nero con la testa velata da tulle da cui si scorgeva un aspetto triste e gli occhi lacrimanti. I forlivesi la salutarono per l'ultima volta, ella ricambiò con una dolcezza cui non erano abituati. La resistenza di Caterina Sforza contro le potenze di allora fu ammirata e cantata in tutta Italia. A Forlì qualcuno, oggi, la ricorda o i forlivesi continuano a essere conigli al cospetto della Tigre? 

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