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La domenica del villaggio

La domenica del villaggio

A cura di Mario Russomanno

I maestri: Alberto Zambianchi e la figura pionieristica del bisnonno, l'industriale Leonida Bonavita

Robusta preparazione economica, orari di lavoro infiniti, capacità diplomatiche. Refrattario alla mondanità, modi semplici e cordiali

Alberto Zambianchi è stato fino a un mese fa Presidente delle Camere di Commercio dell’Emilia Romagna. Un curriculum denso: direttore di Confindustria di Forlì e Cesena, Presidente della Camera di Forlì, Cesena e Rimini, molto altro che non sto ad elencare. Mai una tessera di partito, non credo sia mai entrato in una sezione. Robusta preparazione economica, orari di lavoro infiniti, capacità diplomatiche. Refrattario alla mondanità, modi semplici e cordiali. Nessuno lo ha mai sentito pronunciare una parolaccia o ha mai lamentato una mancanza di rispetto. Zambianchi ha attraversato mezzo secolo di conflitti e ricongiungimenti delle rappresentanze economiche senza, che si sappia, un solo gesto crudele. Una rarità. Un uomo d’altri tempi che conosco da sempre. Cauto, consapevole dei privilegi di nascita e di carriera, non ha mai corso per essere intervistato. Anzi. Particolarmente riservato per ciò che concerne la famiglia. Ma martedì scorso gli ho teso una trappola, perché per quella famiglia nutro intensa curiosità.

Mi spiego. Quindici anni fa scrissi il libro di storia (centodieci anni) della Banca di Forlì e delle antiche Casse Rurali che la originarono, su incarico del Presidente Domenico Ravaglioli. La ricerca partiva da fine Ottocento, la documentazione sulle Rurali scarseggiava. Mi abbeverai anche a fonti alternative, tra esse lo sterminato archivio della Camera di Commercio. M’imbattei in un personaggio eccezionale: Leonida Bonavita (1852-1936). Industriale illuminato che, nell’anno 1900, da Presidente della Camera di Commercio, s’impegnava in questioni come le mense per gli operai, i diritti delle lavoratrici, etc. Una cannonata nello stagno dei convincimenti del tempo. Mi ripromisi più volte di approfondirne la figura. Appresi poi che Bonavita, undicesimo Cavaliere del Lavoro in Italia, leader della maggiore industria forlivese, prima in Italia del settore, è bisnonno materno di Alberto Zambianchi. Che di lui non mi aveva parlato. Reticenza? No, orgoglio trattenuto dalla ferrea educazione a non ostentare. Sono a lungo rimasto nella curiosità. Stavolta, però, ho sequestrato Alberto in una stanza per un intero pomeriggio: oltre a intervistarlo su temi di attualità, gli ho estorto le atmosfere di quella famiglia, che non ebbe in Leonida l’unico rappresentante di spicco.

Alberto, cominciamo da Leonida Bonavita. Cosa si diceva di lui in casa tua?

Ne ho sentito parlare come d’un grand’uomo. Lui e i fratelli erano appassionati cacciatori, facevano parte della “Società dei tiratori folivesi”. Ebbe l’intuizione che la cartuccia potesse essere modificata con la creazione di borre di feltro. Una novità che aprì all’azienda di famiglia mercati anche internazionali. La Bonavita esisteva già da tempo, ma da quel momento decollò. La prima a Forlì, e probabilmente in Romagna, a cimentarsi nel grande teatro della industrializzazione europea

Poi la produzione si diversificò.

Da Forlì il feltro prodotto dalla Bonavita si diffuse ovunque, impiegato in settori industriali diversi: nel tessile, nelle attività militari, nella fabbricazione dei vagoni dei treni e delle automobili.   Leonida era uomo di caratura superiore. Fu per ventiquattro anni consecutivi alla Presidenza della Camera di Commercio, tanta era la stima che gli riconoscevano gli imprenditori. Gli furono proposti  altri incarichi pubblici. Aveva capito che per sviluppare Forlì occorreva diffondere ricchezza e organizzare servizi. Si impegno per la nascita e il consolidamento delle società che fornivano gas e acqua. E fu il più acceso sostenitore della formazione professionale. Fondò l’Istituto Tecnico Industriale, creando infinite opportunità per i giovani, oltre che per le imprese. Come sai, l’Istituto esiste ancor oggi e funziona alla grande.

Una visione dei rapporti sociali in anticipo sui tempi.

Si. Non so se avesse precisi convincimenti politici. Di certo non simpatizzò per il fascismo, non era socialista, ma credeva nel superamento degli steccati tra classi. Anche se, ovviamente, dato il successo imprenditoriale, era diventato molto abbiente. Per dire, fu il primo o il secondo, a Forlì a possedere un’automobile, un auto di gran lusso che pochissimi in Italia avrebbero potuto permettersi. Introdusse misure di sostegno agli operai, tra esse l’asilo per i figli, all’avanguardia assoluta in Italia. Era uomo aperto, dai comportamenti informali. 

Spiega, per favore.

La residenza estiva della famiglia era Villa Tesoro, a Vecchiazzano. Spesso in villa organizzava tavolate all’aperto, parliamo anche di un centinaio di ospiti, riservate ai capi operai e alle loro famiglie. Abitudini sconosciute al mondo industriale del tempo. Vuoi sapere, invece,  cosa accadde a Villa Tesoro in circostanze drammatiche, quando lui già non c’era più?

Certamente.
 
Durante l’occupazione nazista i tedeschi sequestrarono Villa Tesoro e l’adibirono a comando di zona.  Il figlio di Leonida, Mario, sua sorella Iole (mia nonna), e le figlie di lei furono, tra loro mia mamma, furono rinchiusi in cantina. Quando s’avvicinarono le truppe Alleate i tedeschi se ne andarono, intimando ai miei familiari: “se trovate qualcosa di nostro, bruciatela in modo che non finisca in mano al nemico”. In sala da pranzo c’era una carta geografica. Mario, di sentimenti antinazisti, la bruciò con soddisfazione. Ma un gruppo di tedeschi torno e cercare quella carta, non credette che i miei familiari l’avessero bruciata e misero al muro tutti, per fucilarli. Fortunatamente nonna Iole estrasse dal camino un pezzo residuo della carta e i miei familiari furono graziati. Altrimenti non sarei qui a raccontarti questa vicenda.

famiglia bonavita a villa tesoro

Mario, figlio di Leonida, fu a sua volta gran personaggio.

Divenne compositore e paroliere di successo con lo pseudonimo di “Marf”, in coppia con il celebre Mascheroni compose oltre centoottanta canzoni, una per tutte “Romantico slow”. Vennero interpretate, tra gli altri, da Milly e da Vittorio De Sica. Possedeva intelligenza brillante, carattere allegro e affettuoso. Era laureato in chimica, coltivava studi di biologia e farmacia. Visse a lungo a Milano, gli ultimi dieci anni di vita li trascorse a Villa Tesoro. Mia mamma, figlia di sua sorella Iole, ne conservava magnifico ricordo. Utilizzo una parola che allora non si poteva pronunciare, ma credo fosse omosessuale. E credo che, almeno all’inizio, la sua vocazione alla composizione di “canzonette”, in famiglia non fosse stata accolta con entusiasmo. Ma venne lasciato libero di esprimere il proprio talento.

Tua nonna Iole, figlia di Leonida Bonavita, sposò un Mathieu.

Si, mio nonno Enrico Mathieu, membro di una famiglia nobile originaria della Savoia, alta borghesia, si diceva imparentata addirittura con la la Casa Reale. Al tempo ci si sposava all’interno di classi sociali omogenee, avvenne anche in quel caso. Fu, comunque, un matrimonio felice. Mia mamma Marcella, docente di lettere al Liceo Classico di Forlì, era loro figlia.

Anche tuo padre, Stelio Zambianchi, ebbe vita intensa.

Suo padre, mio nonno, aveva un negozio di mobili accanto alla Chiesa del Suffragio, nello stabile che fu abbattuto per costruirvi, durante il Ventennio, la sede dell’Inps con facciata sull’attuale Corso della Repubblica. Stabile poi acquisito nel 1970  dalla Banca di Forlì. Mio nonno morì prematuramente. La vedova, mia nonna Irma, venne autorizzata dal Procuratore del Re, seppur donna, a proseguire l’attività del marito. Mio padre, nato nel 1919, era Sottotenente dei Bersaglieri durante la Seconda Guerra. Dopo l’8 Settembre del 1943 rifiutò di consegnare le armi ai tedeschi e anche di arruolarsi con la Repubblica Sociale. Per questo motivo fu spedito in campo di concentramento, in Polonia e in Germania. Lo salvò la fine della guerra. Anni dopo fu insignito di una decorazione di cui andava molto fiero. All’inizio continuò l’attività della madre, con i mobili, successivamente aprì un’azienda di distribuzione all’ingrosso nel settore farmaceutico.

Veniamo a te. Eri un’adolescente privilegiato, frutto dell’incrocio tra famiglie importanti e abbienti. Mai avuto la tentazione della bella vita? 

Mai. Mi è stata impartita un’educazione severa, con al centro lo studio e il senso del dovere. Mia mamma, seppur molto affettuosa, era un martello: pensa che da bambino quando non dormivo mi leggeva brani dell’Iliade e dell’Odissea. E mio padre, che aveva sfidato la morte per non piegarsi a nazisti e fascisti, m’avrebbe permesso di fare il perditempo? Ho studiato con impegno, sapendo che avrei lavorato sempre. Nei miei oltre trent’anni in Confindustria ho fatto un solo pomeriggio di malattia, per via di un intervento ai denti.

Al Liceo Classico hai conosciuto Patrizia.

Eravamo compagni di classe, è mia moglie, l’unica donna della mia vita, l’amore di sempre. E’ figlia di Ernesto Partisani, che tu ben hai conosciuto. Ernesto veniva da cinque generazioni di mugnai. Progettò un tipo di molino trasportabile, ha vissuto in azienda o in viaggio per lavoro ogni giorno della vita, fino a ben oltre i novant’anni. Patrizia ed io ci siamo intesi sempre.

Raccontiamo la faccenda della “Bussola”?

Ti autorizzai a inserirla nel tuo libro sulla Bussola di Fratta, senza mettere i nostri nomi. Adesso li facciamo. Una sera Patrizia e io, avevamo una ventina d’anni, andammo a ballare alla Bussola con amici, talvolta capitava. Battibeccammo. Minacciai di andarmene sperando mi rincorresse. Mi trovai da solo,  nella nebbia fitta, sulla mia 127 blu, nel parcheggio del locale. Senti un rumore dalla macchina accanto, scesi a vedere. Scoprì che all’interno una coppia stava facendo l’amore, erano svestiti. Corsi il rischio di passare per guardone, mi spaventai. Tornai sulla 127 e partì sparato. Incontrai Patrizia che era venuto a cercarmi nel parcheggio. Mi sentì un cretino ma fu un sollievo.

E quella del vestito da sposo?

Dopo la laurea mia e di Patrizia decidemmo di sposarci, felicissimi. Venne il momento di cercar lavoro. Mi proposi per un impiego in Confindustria a Forlì. Al colloquio ad esaminarmi c’erano il Direttore Glauco Gardini e tre importanti industriali: il presidente Carlo Marzocchi, Alfredo Celli ed Egidio Gherardi. Una commissione d’esame impegnativa. Mi presentai con l’unico vestito intero che avevo, quello da sposo. Fui assunto in prova, impegnato via via in vari settori, poi più stabilmente in quello delle relazioni sindacali.

Ti venivo a trovare nella sede di Corso Garibaldi, eri già Direttore. La tua scrivania era un grande tavolo quadrato che aveva una storia.

Era un cimelio. Nel corso dei disordini del 1948, quando la sede della Confindustria era stata presa d’assalto da lavoratori, da agitatori politici e da sindacalisti guidati da Luciano Lama, il tavolo della direzione, un simbolo, era stato buttato dalla finestra e scagliato in strada. Ai miei tempi era stato rimesso in sesto, il mondo era cambiato. C’era tutt’altro clima, quando assunsi la direzione, a fini anni Ottanta.

Parliamo di relazioni industriali e sindacali.

Arrivai in Confindustria dopo il trauma enorme dei fallimento della Mangelli, la fabbrica più importante del forlivese, allocata al centro della città. Una ferita aperta, un dramma per tantissimi lavoratori della chimica la cui ricollocazione professionale si presentava difficilissima. Lavoratori e sindacati avevano allestito tendoni permanenti di protesta e sostegno nei pressi della fabbrica e in Piazza Saffi. Uno dei periodi più difficili vissuti dalla città. Nacque, in risposta, l’attitudine agli ammortizzatori sociali, con accordo tra imprese e sindacati. Sia i dirigenti sindacali che noi confindustriali imparammo nuove procedure, ci abituammo a relazioni e progetti comuni, seppur mantenendo saldezza nei ruoli.

Le associazioni d’impresa di allora e quelle di oggi.

Allora erano rette da un credo politico, una sorta di patto tra dirigenti e associati che, più o meno, avevano gli stessi convincimenti e votavano gli stessi partiti. Oggi quel patto non c’è più, si sceglie l’associazione per qualità e costo dei servizi. Ma allora come oggi a far il successo o l’insuccesso di una associazione, alla lunga, è la capacità di ascolto dei problemi e la capacità di risposta. E quella di elaborare progetti, non solo di gridare al lupo.

A quel tempo le cariche elettive, nelle associazioni, erano a scadenza. Presidenti e giunte erano soggetti a frequenti ricambi.

E’ vero. Sono stato direttore al servizio di ben otto diversi presidenti. Finito il proprio mandato ciascuno si faceva da parte. Oggi nelle associazioni non è più così. Il sistema del ricambio è certamente preferibile, per motivi di trasparenza e di freschezza di idee, ma te lo devi poter permettere. Devi avere una classe dirigente disponibile e adeguata.

Passiamo alla Camera di Commercio. Un tempo all’esterno delle Camere c’era un auto blu in attesa. Da anni, invece, perfino la carica di Presidente è gratuita.

Un tempo le Camere erano organo decentrato del Ministero dello sviluppo economico, disponevano di grandi mezzi, i presidenti avevano provenienza politica.  Progressivamente si sono trasformate in enti pubblici con gestione privatistica. La riforma Renzi del 2016, poi, ha previsto l’obbligo di accorparsi tra Camere limitrofe. Si è passato da 108 Camere in Italia a 60. In Emilia Romagna si è passato da 9 a 5. Non si viaggia più in auto blu. Che ci sta, ma si è ecceduto nell’impoverimento. Il problema non è tanto il compenso dei Presidenti, per quanto sia ridicolo che un Presidente lavori gratis, ma quello del rispetto del ruolo dei corpi intermedi e della loro possibilità operativa.

Perchè non si è fatta la Camera unica della Romagna?

La riforma Renzi risultò punitiva per le Camere funzionanti e virtuose, come quelle romagnole ed emiliane. Diciamolo: obbiettivo della riforma era risanare in regioni dove qualcosa effettivamente non funzionava. Pensa che noi di Forlì mandavamo soldi a Roma, al sistema nazionale! Ovviamente c’era anche la questione della riduzione dei posti. Se fondi la Camera di Forlì, Cesena e Rimini con quella di Ravenna, parecchi posti saltano. E quando salta la rappresentanza di qualche associazione, al di la dell’ambizione di una persona o di un’altra, è sempre una sconfitta. Per tutti.

Abbiamo vissuto cambiamenti epocali. Le istituzioni economiche hanno saputo interpretarli?

E’ stato tutto molto difficile. La globalizzazione. La grande crisi del 2007, il sistema bancario che rischiò di implodere. La pandemia. La guerra, che pare senza fine e ha sconvolto i mercati.  Calamità naturali come l’alluvione. E diciamolo: delusioni dall’Europa, governi italiani cambiati ogni due anni. Si è lavorato  costantemente in emergenza. Invece, il vero sviluppo deve essere per tutti, condiviso, duraturo, frutto di scelte lungimiranti. Serve tempo per fare scelte.

Con franchezza, cos’è la Romagna vista da Bologna o da Piacenza.

Con franchezza, per gli emiliani noi siamo cosa minore. Loro sono il doppio di noi come numero di abitanti e di imprese. E hanno una storia economica diversa.  Noi abbiamo avuto lo Stato Pontificio, che  non guardava al futuro, loro i Granducati, che al futuro pensavano. Noi abbiamo vivacchiato per secoli con la nobiltà terriera. 

A “Salotto blu”, un mese fa, mi hai detto che i romagnoli non debbono tirarsi indietro, se vengono chiamati a responsabilità regionali.

A me è capitato, anche per circostanze fortunate. Credo non sa stato inutile il mio lavoro. Se capita, e non capita spesso, occorre assolutamente che il chiamato romagnolo vada. Il confronto serve,  si colgono opportunità e si aprono relazioni. Ho un altro suggerimento: meglio partecipare alle riunioni in presenza che in videoconferenza. E’ tutt’altra musica.

Cosa pensi della questione fiere e aeroporti in Romagna?

Le grandi fiere possono accorparsi, purché tutto funzioni. Le iniziative territoriali si possono continuare a fare in loco, le altre no.  Quelle più importanti debbono avere sedi idonee, raggiungibili, fornite di logistica. In tema di aeroporti tutti gli studi dicono che  per i prossimi vent’anni il traffico crescerà. C’è spazio sia per lo scalo di Forlì che per quello di Rimini. Se rispettano le rispettive vocazioni e non si fanno concorrenza.

Sei presidente di Isaer. Credi nello sviluppo aeronautico?

Certamente, e ritengo che, per Forlì in particolare, costituisca grande opportunità. In città abbiamo Itaer.,con 900 tra ragazze e ragazzi iscritti, la Facoltà di ingegneria aeronautica con altri 300, la scuola dell’Enav, la scuola di volo, la formazione di profili professionali da parte di Isaer. Sono vocazioni formidabili, sulle quali andrebbe sviluppata una progettualità. Dobbiamo far capire al Paese che qui esiste la cittadella nazionale delle competenze aeroportuali, oltre che un aeroporto che da tutto ciò potrebbe trovare solo benefici.

Ringrazio Alberto Zambianchi e i lettori. Buona domenica, alla prossima.

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