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Cronaca

Affiora un altro tassello dell'ex Fabbrica Battistini: "Avevo a che fare con 200 donne"

L'81enne, Alberto Cervelli, che dopo aver letto l’articolo di ForlìToday dedicato all’ex Fabbrica Battistini e fornisce il suo ricordo per la ricostruzione della storia di quel luogo

A volte capitano eventi inaspettati che riportano a galla ricordi lontani, che sembravano seppelliti nel fondo della memoria, o persino dimenticati. È quello che è successo all'81enne, Alberto Cervelli, che dopo aver letto l’articolo di ForlìToday dedicato all’ex Fabbrica Battistini e al processo partecipativo “Mettiti nelle mie scarpe”, ideato dall’Associazione Spazi Indecisi, ha deciso di condividerela sua esperienza da meccanico all’interno del Calzaturificio forlivese che si trovava tra via Paradiso e via Fossato Vecchio.

“Sapevo riparare le macchine da cucire, e sapevo che in fabbrica c’era bisogno di un meccanico per le macchine, perché faceva tutto il capo officina. Così con un piccolo stratagemma sono riuscito a farmi conoscere dal capo officina, che si chiamava Arturo". Era il 1957 e Alberto aveva appena 19 anni: “Adesso a 19 anni si è emancipati, una volta era diverso, molto diverso. Ero molto timido, diciamo così. Ma lì mi sono sempre trovato bene…”

Una volta era diverso anche per altre ragioni: “C’era il gruppo dei sindacati, e quando mi videro che lavoravo anche il sabato pomeriggio, mi dissero che come apprendista non dovevo lavorare il sabato pomeriggio. E allora il venerdì seguente salutai Arturo dicendogli ‘ci vediamo lunedì’. ‘Ma come lunedì? Tu devi lavorare anche il sabato pomeriggio’. ‘No’, dico, ‘io sono un apprendista’. Allora lui andò di sopra in ufficio e quando tornò mi disse ‘da questo momento sei operaio. 125 lire l’ora, e quindi lavori anche il sabato pomeriggio!’. Lì c’era proprio bisogno di un meccanico. Arturo era una bravissima persona, mi ha voluto sempre bene. Mi ha insegnato anche tante altre cose, come lavorare al tornio, saldare, fare tante cose.”

Man mano che parla, emergono nella memoria altri nomi: “C’era Rino, l’elettricista. Poi c’erano Otello e Massimo, che riparavano tutti gli altri macchinari della fabbrica. Io facevo solo le macchine da cucire. C’erano tre reparti: giunteria pelle, dove si facevano le scarpe di cuoio, il reparto degli stivali, dove cucivano le fodere da mettere negli stivali, e poi il reparto pantofole. Avevo a che fare con circa 200 donne che lavoravano a macchina. C’era un bel gruppo di ragazze, di tutte le età. Molte avevano 20, 22 anni. C’è una signora di nome Danila che vive come me a Castel Bolognese, ora ha 88 anni, lei entrò in fabbrica dai Battistini a 15 anni.”

Quanto guadagnava? 33.000 lire al mese. Era poco, magari con un po’ di straordinari si arrivava a fare 34.000, ma non era ancora abbastanza. “Dopo me ne sono andato a prendere qualcosa in più…", ammette, ma dice anche: “Avrei seguito volentieri i Battistini a Monastier, se non fosse che avevo già un altro lavoro. Con loro mi sono sempre trovato bene. Certo, c’erano scioperi: uno degli ultimi prima che andassi via, nel ’62, durò un mese. Si protestava soprattutto per il salario, e i proprietari lo alzarono di 10 lire l’ora. Ma stare a casa un mese per prendere 10 lire in più all’ora non era proprio bello…", commenta sconsolato. 

“Quando c’erano gli scioperi alla fine noi dell’officina lavoravamo sempre, per riparare tutti i macchinari, perché non si potevano riparare sempre durante la lavorazione. Se rimanevamo indietro c’era praticamente il raddoppio dei macchinari, e quindi durante gli scioperi ci lasciavano entrare in officina perché lì c’era da fare. Gli altri facevano sciopero, ma nessuno ci ha mai detto niente! Non c’erano manifestazioni violente, almeno nel periodo in cui ci sono stato io.”

Cosa ricorda dei proprietari? Fa un momento mente locale: “Dunque, io sono andato alle medie con Michele, che era figlio di uno dei fratelli Battistini. Andavo da lui a studiare. Poi dopo mi sono ritrovato nella fabbrica di suo padre… come girano le cose". Ma il ricordo su cui indulge più a lungo è per uno dei proprietari, Ernesto Battistini: “Durante l’estate dentro faceva molto caldo, e c’era uno dei fratelli, Ernesto, che passava con un pitàr de lat (il contenitore di alluminio che solitamente si usava per il trasporto del latte, nda), pieno di acqua e anice. E passava con un bicchiere e dava da bere a tutti gli operai. Lì faceva sempre un caldo tremendo, con i macchinari. Non c’era il riscaldamento d’inverno, né l’aria condizionata d’estate. D’estate era una cosa tremenda, c’era anche il reparto caldaia dove producevano il vapore che poi andava a finire nel reparto stivali per vulcanizzare gli stivali".

Alberto ha ripetuto tante volte che si è sempre trovato bene, ma ci tiene a sottolineare anche che non era sempre tutto rose e fiori: “Ovviamente dovevo fare anche altri lavori, come quello di lavare gli stampi delle scarpe di gomma. Li lavavo con l’acido nitrico scaldato, e faceva un puzzo tremendo: lo facevo sui tetti della fabbrica. Quello era un lavoro che mi avevano appioppato perché nessun altro voleva farlo, e così è toccato a me. Poi di solito non mi sporcavo molto, ma il sabato pomeriggio dovevo fare la lubrificazione di tutti i mescolatori della gomma: alla fine la tuta la mettevo a bagno nel diluente e la ritiravo il lunedì, da quanto era lercia. Ma nonostante questo mi è dispiaciuto andare via.” Da Castel Bolognese, dove abita ormai da molti anni, Alberto Cervelli continua a informarsi sulla sua città natale: “Quando ho letto su ForlìToday, che io leggo tutti i giorni perché mi piace vedere cosa succede a Forlì, sono rimasto sorpreso. Mi è piaciuto ricordare questa storia".

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