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Cronaca

Liceale si gettò dal tetto della scuola: genitori condannati per i maltrattamenti

La Corte d'Assise del Tribunale di Forlì, dopo circa 7 ore e mezzo di camera di consiglio, ha deciso sulle imputazioni mosse ai genitori di Rosita Raffoni

La Corte d'Assise del Tribunale di Forlì, dopo circa 7 ore e mezzo di camera di consiglio, ha deciso sulle imputazioni mosse ai genitori di Rosita Raffoni,  la giovane di Fratta terme che si suicidò ad appena 16 anni il 17 giugno 2014, gettandosi dal tetto del Liceo Classico 'Morgagni' di Forlì e lasciando un drammatico video girato pochi minuti prima del suo lancio mortale in cui "chiedeva giustizia" per la sua morte. La ragazza addossava la responsabilità di quel gesto ai comportamenti dei genitori. Istigazione al suicidio era il capo di accusa più grave mosso dalla Procura della Repubblica di Forlì al padre. Maltrattamenti aggravati era la seconda accusa mossa ad entrambi i genitori.

Processo Rosita, la sentenza

I giudici togati e popolari della Corte d'Assise, presieduti dal presidente Giovanni Treré, alla fine hanno assolto il padre Roberto Raffoni dall'accusa più grave, quella di istigazione al suicidio della figlia, mentre lui e la moglie Rosita Cenni sono stati riconosciuti responsabili dei maltrattamenti e condannati a 3 anni e 4 mesi, ma senza l'aggravante della morte della ragazza conseguente a questo reato. In altre parole, secondo il dispositivo della Corte (la sentenza sarà resa disponibile tra 90 giorni) Roberto Raffoni e Rosita Cenni maltrattarono la figlia, ma non ne causarono la morte, né tanto meno la istigarono al suicidio. L'avvocato dei due coniugi Marco Martines ha già annunciato appello, sebbene di fatto già in primo grado gli aspetti più gravi delle accuse vengono di fatto a cadere.

> VIDEO - Santangelo: "La sentenza conferma l'esigenza di fare questo processo"
> VIDEO - La difesa: "Questi genitori la vera pena l'hanno scontata prima"

Il pm Sara Posa, infatti, aveva chiesto sei anni di carcere per il padre Roberto Raffoni e 2 anni e mezzo per Rosita Cenni al termine di una requisitoria finale durata quasi quattro ore nella quale aveva messo in fila tutti i fatti di un disagio psicologico crescente della giovane, a cui i genitori – secondo le accuse – non posero alcun tentativo di soluzione, ma anzi lo acuirono con umiliazioni, isolamento dalle coetanee, privazioni e assenza d'affetto. Fino all'ultima provocazione, la sfida fatta dal padre alla figlia di concretizzare i propositi suicidi resi noti alcuni giorni prima al termine dell'ennesima, aspra, lite. Il giudizio, invece, allegerisce la posizione del padre, ma contemporaneamente equipara la responsabilità del padre e della madre sui maltrattamenti, col risultato che a quest'ultima arriva una condanna superiore a quella richiesta dalla Procura. Per entrambi, inoltre, è arrivata anche l'interdizione dai pubblici uffici per 5 anni.

Dramma al Liceo Classico (foto Frasca)

Alla lettura del dispositivo non erano presenti i due imputati. "La loro vera pena l'hanno scontata prima", commenta l'avvocato Martines, riferendosi alla morte della figlia, una morte che sottolinea il difensore "non era prevedibile". Prima che i giudici si ritirassero i coniugi Raffoni hanno consegnato una lettera alla Corte, con un valore più affettivo che processuale e legale, spiegando che, se è vero che nei processi il diritto all'ultima parola è dell'imputato, in questo processo sui generis l'ultima parola, quella più perentoria, l'ha avuta Rosita.

"Processo difficoltoso e inusuale"

Davanti alla Corte d'Assise del Tribunale di Forlì (presidente Giovanni Trerè) il procuratore reggente Filippo Santangelo in una sua breve introduzione aveva riconosciuto che si era trattato di un “processo difficoltoso” e “non usuale”, posto su “tematiche che possono essere considerate sfuggenti” come lo possono essere i rapporti tra genitori e figli, in particolare nella loro età dell'adolescenza. La Procura è comunque soddisfatta del giudizio: "La sentenza ci ripaga dell'impegno, conferma l'impianto dell'accusa e conferma la necessità che questo processo si dovesse fare". La Procura, spiega infine Santangelo, "si è fatta carico anche della parte civile. In questo processo nessuno rappresentava l'interesse di Rosita".

VIDEO - La Procura chiede la condanna dei genitori 

"Sistema disfunzionale di relazioni familiari" 

Le indagini sono state curate da un team di inquirenti specialzzati: dagli esperti del 'Rac' dei Carabinieri (Reparto crimini violenti) il tenente colonnello Anna Bonifazi e il maresciallo capo Maurizio Inangeri, agli investigatori locali, il luogotenente Gino Lifrieri, all'epoca al Radiomobile dei Carabinieri di Forlì e il tecnico informatico specializzato della  Questura di Forlì Ulrico Baldari, insieme al consulente dell'accusa, il professionista Luca Mercuriali.

Il pm Sara Posa aveva tratteggiato la breve vita di Rosita, descritta come una studentessa modello, delle medie scolastiche altissime, intelligente. Eppure, secondo la ricostruzione dell'accusa, la sua vita in casa era un inferno, dominata da continui dinieghi, divieti, isolamento dalle amizie, mancate gratificazioni anche solo verbali, "prigioniera" e "repressa", ha spiegato Posa. Alla sua ribellione nei confronti di tutto questo, il regime famigliare, dominato dal padre, si sarebbe fatto ancora più stretto: la giovane sarebbe stata isolata anche nel contesto del nucleo più stretto.  L'accusa ha puntato, più che su singoli episodi, ad una sommatoria di comportamenti genitoriali ritenuti vessatori. "E' un sistema di relazione disfunzionale - lo ha definito il pm Posa -. Se non accettiamo questo, non accettiamo che esista il maltrattamento psicologico e che questo reato si consumi solo se ci sono stati dei ceffoni refertati al pronto soccorso". Quest'aspetto ha fatto breccia nel giudizio finale, ad una prila lettura del dispositivo.

Il dramma del Liceo Classico: la fiaccolata

La sfida del padre

L'accusa di istigazione al suicidio  ha preso invece corpo dall'analisi investigativa degli ultimi giorni di vita di Rosita, ricostruiti come di forte tensione per la scoperta che la ragazza aveva sottratto un telefono in casa e che avrebbe subito la punizione di non andare in un viaggio di studio già definito, in Cina. In queste fasi la ragazza avrebbe minacciato di suicidarsi gettandosi da un tetto e il giorno dopo, come risposta, avrebbe visto la provocazione del padre "Non ti sei gettata dal tetto, allora?". "La ragazza a quel punto sente l'indifferenza del padre nei confronti della sua morte e Rosita si sente sfidata sulla coerenza", commentava la rappresentante dell'accusa. Così concludeva la pm Sara Posa: "Non si chiede di esprimere un giudizio morale, non bisogna decidere che persone erano i genitori e Rosita, quello che ci dobbiamo chiedere è: questa morte si poteva evitare? Questa morte è conseguenza, almeno in parte, delle azioni dei genitori? Queste azioni hanno fatto sentire a Rosita la morte come un sollievo? Per la Procura la risposta è sì, Rosita è stata vittima dei maltrattamenti psicologici dei genitori". "E' stata tradita la funzione di protezione dei minori che viene affidata dall'ordinamento ai genitori" era stata la conclusione della pm. Ma su questo secondo ragionamento la Corte d'Assise è stata di avviso diverso.

L'arringa della difesa

L'avvocato della difesa Marco Martines  aveva chiesto, invece, l'assoluzione per entrambi i genitori. In un'accorata difesa durata circa 7 ore - con delicatezza e senza mai offendere la memoria della giovane - aveva dato un'altra versione di Rosita, in sostanza quella una sedicenne intelligente e acuta che però viveva una fase di ribellione adolescenziale difficilmente contenibile dai genitori. Martines aveva spiegato di non essersi mai trovato così "commosso" in un processo e ha parlato di "assoluta eccezionalità della vicenda di cui trattiamo". Ha anche detto di essersi "innamorato della sensibilità, dell'acutezza, dell'intelligenza di Rosita", per poi puntare al fatto, da legale, che "non dobbiamo discutere di niente di diverso che dell'accertamento delle responsabilità penali". I genitori? Avevano scelto di vivere "nella discrezione, nella riservatezza, nella parsimonia, nella selettività", e per questo "non facevano gli amiconi del vicino Tizio o del vicino Caio". Mentre Rosita, in sostanza, da alcuni mesi prima della morte viveva in una situazione di evidente antagonismo con il padre e la madre "presa tra una voglia di trasgressione e il sentimento di non voler deludere o genitori". Commentava Martines: "Niente come in questo processo la differenza tra la vita e la morte si è misurato in una parola o nella mancanza di una parola, in un tragitto costellato di tante occasioni perdute".

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