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Briciole di natura

Briciole di natura

A cura di Riccardo Raggi

Carbone e carbonai: la dura vita dei montanari del secolo scorso

Quello del carbonaio era un mestiere molto duro, fatto di sacrifici e, spesso, di notti passate in foresta accanto alla carbonaia

Camminando in mezzo ai boschi del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, spesso è possibile osservare delle ampie radure più o meno circolari di terra nerastra: sono le aie carbonili, spiazzi che venivano utilizzati fino a oltre la metà del secolo scorso per la produzione di carbone. 

Quello del carbonaio era un mestiere molto duro, fatto di sacrifici e, spesso, di notti passate in foresta accanto alla carbonaia: era dunque un lavoro svolto principalmente dagli uomini forti di casa, che spesso andavano a prestare la propria opera anche nei paesi limitrofi o addirittura fuori regione. Particolarmente abili erano i carbonai casentinesi, che si recavano perfino in Maremma, Calabria o Sardegna per poter lavorare e guadagnare qualche soldo da portare a casa.

La produzione del carbone era dettata da regole precise, con una metodologia di lavoro ben organizzata e con una vera e propria squadra di addetti ben specializzati: a coordinare le operazioni c’era il capo squadra (o guida foco), coadiuvato da uno o due operai e da un giovane garzone (il meo), un bambinetto a cui venivano affidati i lavori più umili.

Una volta arrivati sul posto indicato dal capomacchia, i carbonai avevano il compito di allestire la piazza, cioè l’aia carbonile in cui avrebbero dovuto produrre il carbone: spesso questi spiazzi venivano riutilizzati anno dopo anno, tant’è che ora, se vi trovate a passeggiare nei pressi di queste ampie radure, vedrete il terreno ancora annerito e qualche pezzetto di carbone qua e là.
Una volta ripulita la piazza da vegetazione e altro materiale e verificato che la stessa fosse perfettamente orizzontale, si procedeva con l’allestimento della carbonaia: prima si effettuava la costruzione del camino centrale, costituito da tre pali di legno alti circa 2-3 metri, piantati saldamente nel terreno e tenuti insieme da due cerchi formati con dei rametti. Successivamente, addossati ai pali centrali, si procedeva a posizionare, dall’interno verso l’esterno, i legni in maniera concentrica, avendo cura di sistemare i tronchetti di diametro maggiore più internamente rispetto agli altri. Le dimensioni medie di una carbonaia potevano raggiungere i 2-3m di diametro.

Terminata questa operazione si procedeva alla realizzazione del calzolo (o pelliccia), un anello posto alla base della carbonaia, composto da zolle di terra con la parte erbosa rivolta verso l’interno; l’operazione successiva prevedeva la completa copertura della carbonaia con terra, frasche e foglie umide ed un ultimo strato superficiale di terra molto fina. Veniva lasciata libera la bocca del camino, che serviva per l’accensione del fuoco: si gettavano all’interno dell’apertura tizzoni ardenti e legni accesi, poi si chiudeva la cavità con una grossa zolla o con un coperchio di latta.

Iniziava così il momento più delicato di tutta la produzione: la combustione doveva avvenire con fiamma bassissima, sfruttando il processo della pirolisi, una sorta di combustione imperfetta del legno, che avviene in condizioni di scarsa ossigenazione. L’abilità del carbonaio stava nel saper “guidare” la carbonaia, praticando con un lungo palo dei fori attraverso il rivestimento di terra (o al contrario coprendo i buchi fatti in precedenza) per dosare la giusta quantità di ossigeno all’interno della pira. Il carbonaio intuiva che il carbone era pronto da alcuni segnali ben precisi: la carbonaia emetteva fumo bianco-azzurrognolo, il suono della legna era quasi metallico ed il suo profumo più intenso.

Solo allora si poteva procedere con lo smontaggio della carbonaia, che avveniva utilizzando tipici rastrelli di legno e pale: con l’operazione della sommondatura (o scarbonizzazione) si scoperchiava la carbonaia e si raffreddava il carbone con numerose palate di terra, poi si procedeva quindi all'estrazione spegnendo con l'acqua eventuali braci rimaste accese. La qualità del carbone ottenuto variava a seconda della bravura ed esperienza del carbonaio, ma anche dal legname usato. Il carbone di ottima qualità doveva cantare bene, cioè fare un bel rumore. 

Il carbonaio e gli operai, per lo svolgimento di queste operazioni, usavano spesso zoccoli di legno per evitare di scottarsi i piedi. L’ultima fase della produzione prevedeva il caricamento del carbone nei sacchi che venivano prelevati dai vetturini e dai carrettieri, per poi essere portato in paese per la vendita. Solitamente il carbone veniva suddiviso per tipologie, a seconda delle essenze arboree utilizzate: il carbone forte era quello di quercia, il carbone dolce veniva dal faggio e dal carpino mentre il carbone pigna si otteneva dal legno di castagno e serviva solo per la tempra dei ferri nelle fucine dei fabbri.

Nella tradizione popolare, la figura del carbonaio (tutto sporco di fuliggine e di nero carbone) potrebbe essere associata a quella dell’uomo nero della famosa ninna nanna (… Ninna nanna, ninna oh, questo bimbo a chi lo do? Lo darò alla Befana che lo tiene una settimana, lo darò all’uomo nero, che lo tiene un anno intero…): a ben pensarci, queste parole possono trovare un fondamento nell’usanza di un tempo, in voga specialmente fra le famiglie più povere e numerose, di mandare uno dei propri figli a fare il garzone (il meo) presso una squadra di carbonai. Con queste premesse… conveniva addormentarsi rapidamente!

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