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Forlì ieri e oggi

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A cura di Piero Ghetti

Quando Porta Schiavonia dava riparo ai braccianti agricoli

Nel 1933 scompare per sempre la parte anteriore di Porta Schiavonia, il mitico androne che per decenni aveva dato riparo agl’ovar, i braccianti agricoli che attendevano di essere ingaggiati per la mietitura

Immaginatevi Forlì ancora cinta dalle poderose mura medievali volute da Caterina Sforza: Porta Schiavonia era l’accesso principale a quella città ormai scomparsa. Alcuni autori, in primis Calzini e Mazzatinti, sino ad includere il Casadei, sostengono sia stata eretta nel 1743 in omaggio al cardinale forlivese Camillo Paulucci, di ritorno dalla Polonia ove si era occupato della salita al trono di Augusto III. Vittorio Mezzomonaco, nel suo introvabile “C’era una volta la via Bagnola”, scritto nel 1983 su disegni a china dell’indimenticabile Sauro Rocchi, ritiene quella data inesatta: “E’ da supporre che in quell’anno la Porta di Schiavonia fosse già stata ricostruita, dopo la parziale demolizione voluto dal Rivarola, ma quando ciò sia avvenuto, nonostante le nostre ricerche, ci è stato impossibile appurarlo. Forse verso la fine del Seicento”.

Con ai lati le due rocchette, superstiti di precedenti fortificazioni, è arrivata pressoché intatta all’era fascista, sopravvivendo persino all’abbattimento delle mura di cinta quattrocentesche avviato nel 1905. Negli anni Venti del secolo scorso, la Porta, che nel 1882 era stata ufficialmente dedicata all’Eroe dei Due Mondi, Giuseppe Garibaldi, viene sfondata d’un lato per consentire la crescente circolazione veicolare. Il 7 agosto 1933 avviene il fattaccio: “Con le prescritte autorizzazioni della Soprintendenza ai Monumenti – si legge nel periodico Forum Livii – è stata disposta la demolizione della parte anteriore della porta, che non ha certamente un notevole pregio artistico e storico (...) Pure il Duce ha proclamato di non avere il feticismo delle pietre e dei mattoni, e che non si deve esitare a demolire, ove occorra”. Per farla breve, la cosiddetta “parte anteriore della Porta” non era altro che il mitico androne, riparo dei braccianti giornalieri, agl’ovar, che attendevano di essere chiamati per qualsiasi lavoro in grado di procacciare loro il pane quotidiano.

“Nel suo androne ormai scomparso – scrive Elio Caruso in Forlì, Città e Cittadini fra Ottocento e Novecento – ebbero riparo notturno e dal maltempo i braccianti, che venivano di lontano per essere ingaggiati per la mietitura. Quello era il luogo convenuto e lì i braccianti si radunavano e dormivano, raggomitolati sulla giacca, per terra, in attesa dell’alba, quando i mezzadri venivano a reclutarli”. Terminata la mietitura in un podere non tornavano a casa, ma si radunavano nuovamente nei pressi della Porta, aspettando nuovi ingaggi. E così per tutta l’estate. La categoria dei “giornalieri”, che oltre ai braccianti ricomprendeva anche i muratori, i ferrai e i falegnami, era una condizione a dir poco precaria, più volte stigmatizzata dalle Autorità: “Il loro numero – si legge in una lettera che nel 1887 il Prefetto di Forlì inviò al Ministro dell’Interno - eccedeva sui bisogni dell’agricoltura e delle industrie. Difettano di lavorare e sono costretti a contentarsi di mercedi molto scarse. Essi sono quindi alloggiati, vestiti e nutriti malissimo”. Vent’anni più tardi, la loro situazione non era migliorata: quella dei giornalieri era la classe operaia più misera e povera del Comune di Forlì.

“I braccianti – si legge in una relazione del segretario della Camera del Lavoro di Forlì, Andrea Ungania, datata 1903 – sono circa 2.000 e vivono nelle ville del contado, in case promiscue che lasciano a desiderare per la luce, l’aria e sono i veri paria dei lavoratori della terra. Hanno un lavoro scarso e poco remunerato, e un grande nemico che li accascia, li avvilisce e li vince: la disoccupazione”. Terminati i lavori estivi nelle campagne circostanti, agl’ovar tornavano a radunarsi sotto l’androne di Porta Schiavonia per cercare altre occupazioni, anche cittadine, sempre temporanee e occasionali, pur di sopravvivere: spalatura della neve, raccolta dei fiori di tiglio, pulitura dei canali, spaccatura delle pietre e sistemazioni di strade, riparazione di fossi di scolo, ecc. Dall’estate del 1900, un gran numero di braccianti agricoli trovò impiego nel neonato zuccherificio Eridania, realizzato fuori le mura a ridosso della ferrovia. Un’altra fetta di giornalieri fu impiegata, a partire dal 1904, nella picconatura e demolizione delle mura cittadine: il 7 dicembre 1903, il Consiglio Comunale di Forlì aveva, infatti, approvato l’abolizione delle barriere daziarie. “L’abbattimento delle mura di cinta – si legge nella deliberazione – potrà liberare la cittadinanza, favorire la completa circolazione dell’aria e iniziare la rigenerazione dei quartieri popolari”. 

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