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Il Foro di Livio

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A cura di Umberto Pasqui

1922: l'ultimo carnevale

Spunta da un cassetto di Forlì una preziosa memoria scritta a macchina. Il titolo è "l'utum cranvèl" e il testo è in dialetto. Cosa vi si legge?

"L'utum cranvèl", cioè "L'ultimo carnevale". Questo è il titolo di un dattiloscritto scovato tra i cassetti del forlivese Maurizio Mambelli, una testimonianza scritta da Tunino ad Biasè, come si legge nella firma in corsivo in calce. Il foglio era stato conservato da un familiare di Mambelli, lo zio Luigi (1898-1949), amico dell'autore della narrazione. Di cosa tratta? Del carnevale del 1922. Il contesto si ricava molto facilmente: dal 1923 e per vent'anni si continuerà a festeggiare il carnevale, certo, ma in modo diverso. Con uno sguardo malinconico, l'autore descrive in dialetto che cosa accadde quel 26 febbraio 1922. Prima della Grande guerra, la gente se la passava come poteva, c'erano diverse compagnie: di Pignater, di Urtlé, di Pradarul, di Quaranta e altre fati toti per divirs mutiv e fundamet. Questa usanza dei carnevali promossi da vari sodalizi goliardici svanirà di lì a poco, quindi è interessante riappropriarsi di un'atmosfera ormai archiviata. Il testo è in prima persona, in un forlivese stretto che pochi ancora conoscono, e pare di ascoltare in una lingua dai suoni perduti, vicende anch'esse cadute nell'oblio. Gruppi di amici che facevano baldoria per giorni con scherzi e balli, così, giusto per stare insieme, per divertirsi senza pretese né intrattenimenti sofisticati. Si racconta, quindi, l'ultimo carnevale della Compagnia della Concordia, una delle tante simili che esistevano a Forlì fino agli anni Venti. Insomma, come si svolse la "settimana grassa" del 1922?

Nel 1919, quand a turnesum a cà din ti suldè, venne fondata tra amici la cumpagnì dla Cuncordia, cioè un sodalizio per far divertire i soci una volta all'anno e la n'aveva gnit ad chinfè cun la poletica perché ognù l'aveva al su ideie e rispeteva queli ad ch'itar in quanto desiderio comune era stare in allegria, libertà e armonia. Composta da giovani e vecchi, gente che lavorava tutta la settimana, si finanziava con du french a testa. La quasi totalità dei fondi andava all'organizzazione della festa di carnevale, una chiassosa celebrazione che durava addirittura più giorni, così è descritta nel testo originale: A la fe' ad cranvèl ad tot quent ien a dasema a fond a tot al nostar risors ad baioc e ad energì e da e sabat sera a e mert a mezanota l'era baldoria, l'era baraca. Si sottolinea che la "baracca" durava da sabato sera fino all'ultimo minuto prima del mercoledì delle Ceneri. Tradizionalmente, alle 23 del martedì grasso si avvertiva il suono della lòva, il tocco di campana che segnava la fine del carnevale, in genere si poteva continuare a trasgredire per un'altra ora. Nel frattempo, in cucina si metteva sul fuoco una pentola d'acqua fino all'ebollizione per "togliere dalla casa tutto il grasso", cioè da allora si doveva praticare l'astinenza dalle carni e un regime alimentare quaresimale. La festa del 1922 fu fatta int'l'ustarì dl'Esperia, nei pressi dell'omonimo teatro, però e fop l'utma, parché dop i fasesta in vus piò e tot al cumpagnì al vés eliminedi. Cioè, dopo la marcia su Roma le compagnie come la "Concordia" vennero bandite e non si sarebbero più ripetute baldorie del genere. Generalmente, si ballava dappertutto, fiorivano sale ovunque ma non erano ritenute convenienti le feste per soli giovani.

Intanto v'è da dire che a quel tempo i ragazzini si divertivano a lanciare petardi ai piedi dei passanti o a imbrattare con il lucido da scarpe nero le porte delle case. I buontemponi gettavano arance, palle di cenere con guscio in gesso, limoni, uova piene di farina. I bersagli preferiti erano i pedoni, o i curiosi alla finestra. Tra i costumi che suscitavano le più grasse risa in una città come Forlì vi erano abiti talari, vesti religiose e persino insegne vescovili con carovane salmodianti, il tutto pur di far imbestialire i cattolici. Gli scherzi più pesanti finivano in tribunale. In quell'ultimo carnevale della Concordia, all'interno dell'osteria, c'era così tanta gente che l'autore dello scritto - così confida - avrebbe voluto trarne una poesia, ma an so bo', auspicando per tale omissione il perdono neca parchè i quà ai so armast sol me. Tra i nomi dei numerosi partecipanti si scoprono: Missirini Romeo det Furmai e baruzer, Mambelli Luigi e fabar, Papi Aldo detto Piscin e fachè, Sintoni Pietro e calzuler, Matteucci Pellegrino Piligré che e lavureva de Manzel, Benini Alberto Bertuccio l'imbianchè e me Riva Antonio det Biasè e falignam. Difficile reperire ulteriori informazioni su questi concittadini da tempo nell'altro mondo, forse qualche parente riconosce qualche nome familiare. Come al solito la festa era stata organizzata alla grandea tulesum i sunadur, a fasesum da magnè e l'aibana e e sasves i cureva a tota cana. Come da copione: si suona, si mangia (purtroppo non si indica cosa) e si beve (albana e sangiovese), si beve alquanto. Per il veglione di sabato, i soci si vestirono chi da frate chi da balia, a tulesum una caruzèla da burdèl e ai mitesum un cagnì tot avstì coma un babì; tot la nota, fra un bal e cletar, d'ogni tant, un po' pron, a ste cagnì ai dasema da magnè dla zambela bagneda in te be, che arivesum a la matena che l'era imbarieg dur coma nuitar. Difficile credere che il cagnolino in carrozzella (obbligato a mangiare ciambella imbevuta di vino onde ubriacarsi) si sia divertito, in ogni modo chissà in che stato erano i soci della Concordia la domenica mattina. Un cminzeva avdè al prem lus dè dé che as truvesum in Piaza Granda e sobit i pulizioti is mitep ad detra, int al nov l'arivep e Cumiseri che us fasep dè la mola, parchè neca sa sema avstì da frè, però an avema la mascra. Dopo questo coinvolgimento delle Forze dell'Ordine, senza gravi ripercussioni a quanto pare, la Compagnia trovò tempo per andare da Savoia a fes futugrafè. Tornati a casa, si diedero appuntamento nel pomeriggio (dopmezdè), quando tornarono a ballare fino a mezzanotte, a bere e mangiare. La comitiva si spostò quindi a Castrocaro a fare la merenda (brenda) a l'ustarì de Sol, raggiungendo la cittadina con una longa fila ad fiecar, cioè in carrozza. 

Per non farsi mancare nulla, e mert e fnep la festa a mezanota cun i bel e cun la magneda di trocul, i avenz dal magnedi di dè prema. Anche martedì, quindi, si continuava a mangiare ciò che era rimasto in tavola, fino alla mezzanotte, quando finì tutto: ormai era tempo di quaresima, una quaresima più lunga del previsto. Così, infatti, cessarono i bagordi: e mircul  a turnesum a lavuré e è cminzep la quaresma che la durep infema a e melnovezentquarantazequv. Cioè fino al 1945. Negli stessi giorni carnascialeschi del '22, le cronache ci dicono che ai Giardini Margherita di Bologna si vide il "carro fascista"; era sormontato da una ramazza con fascio littorio in procinto di spazzar via i socialisti. Ai piedi della scopa si notava un bottiglione di olio di ricino.

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