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Il Foro di Livio

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A cura di Umberto Pasqui

21 novembre: fuga da Forlì

Uno “spettacolo di terrore” costrinse migliaia di forlivesi a cercare un treno per andarsene: che cosa accadde nell’autunno del 1870?

Una calca urlante e piangente affollava la stazione di Forlì in attesa di andarsene con il primo treno per Ancona o per Bologna. Una scena angosciante, straziante, ben raccontata da Filippo Guarini nel suo “Diario Forlivese” secondo il quale “fuggirono circa 4000 forlivesi” e “chi non poté emigrare col treno fuggì in campagna”. Per dare un'idea un po' più definita basti dire che nel capoluogo romagnolo, allora, vivevano poco più di 15 mila persone. L'esodo concitato e frettoloso vide persone “d'ogni ceto”, chi “senza nulla, chi con una piccola valigia fatta in fretta, chi con l'abito che aveva indosso”. Era il 21 novembre 1870: “Tutto il giorno fu un via vai di carri che portavano letti e materassi sotto le capanne dei contadini”. Più avanti l'attento Guarini confiderà: “Dirti, buon lettore, che io non ho avuto paura, è cosa che non crederesti. D'altronde, io non ho avuto paura, ma spavento grandissimo, spavento che a raccontartelo solamente mi viene un freddo di ghiaccio per le ossa” e anch'egli, coi familiari, riparerà altrove. Cosa stava succedendo a Forlì? 

Un vero “spettacolo di terrore”: un terremoto. Sì, da queste parti a certe scosse si è quasi abituati, ma quella volta il timore fu notevole. Lo sciame era iniziato il 30 ottobre, colpendo inizialmente soprattutto Meldola e le colline: furono distrutti il convento e la chiesa di Scardavilla di Sotto e ridotto a un rudere pure la Rocca delle Caminate (che sarebbe stata ricostruita una cinquantina d'anni dopo). Le scosse si ripeterono per tutto il mese di novembre, fino a marzo. C'era chi vedeva l'evento tellurico come una punizione divina per la breccia di Porta Pia e la presa di Roma compiuta circa un mese prima. A Bologna, grazie al marchese Prospero Bevilacqua, si costituì il Comitato di soccorso alle popolazioni romagnole colpite dal terremoto, attivo specialmente dopo che centinaia di forlivesi ebbero raggiunto il capoluogo emiliano. Agli sfollati fu assicurata ospitalità ma la tranquillità era ancora lontana. 

Alla scossa del 30 ottobre 1870 è stata attributa una “Magnitudine del Momento sismico” pari a 5,6: senza approfondire tecnicismi del caso, il terremoto che sconvolse la pianura emiliana nel 2012 fu di poco superiore. Secondo le moderne classifiche, questo episodio storico sarebbe il diciannovesimo terremoto più violento registrato in Emilia-Romagna (in tale graduatoria ben cinque mossero il territorio forlivese). Usando altre scale (come la Mercalli), si stabilisce che il sisma che si verificò alle 18.34 del 30 ottobre 1870 toccò l'ottavo grado, seguito dieci minuti dopo da un altro, sempre violentissimo. I paesi nei dintorni ebbero gravi lesioni agli edifici e Castrocaro contò diversi morti. A Forlì si sentivano suoni di campane e campanelli, crollarono camini e tutti i fabbricati ebbero sofferenze di vario genere. Lo sciame si scatenò con altri picchi intensi: l'8 dicembre e il 22 gennaio, con altrettanti danni. 

Quel 21 novembre 1870 era un lunedì, giorno di mercato, e cadde la goccia che fece traboccare il vaso: “I contadini che erano in piazza” strepitarono correndo per “cercare spazi aperti” in seguito a una violenta scossa “di poco inferiore a quella del 30 ottobre”. Erano le 11.30 e si era già ballato all'una e un quarto, alle 2 e mezza e alle 4 e mezza. Tra nervosismo, paura e sonno represso, i forlivesi avevano ormai deciso di abbandonare la propria città. A subire i danni maggiori gli edifici: crollò parzialmente la vecchia Porta di Ravaldino (nell'immagine) e fu successivamente ricostruita come modesta barriera. Se inizialmente la Porta quattrocentesca doveva avere l'aspetto di una torretta merlata con un arco piuttosto stretto, successivamente fu ridotta a un piccolo voltone di scarso pregio e come tale salutò la storia. Più che dal sisma, in questa foggia, inutile e pressoché abbandonata, fu atterrata dall'incuria. La barriera che ne prese il posto ebbe anch'essa scarsa fortuna: nel 1928 fu demolita per far spazio ai veicoli che a via a via correvano sempre più ingombranti. Ormai è andata così: a rimedio di un ingresso un po' sotto tono (se non fosse per la Rocca, ora soffocata dalle fronde di alberi indisciplinati), il senso del decoro imporrebbe di atterrare l'inutile e bruttino torrione dell'acquedotto, o di ridare a esso la foggia finto medievale che aveva prima della sua distruzione bellica. Si spera che la “Forlì che brilla”, come in queste settimane di luminarie natalizie si legge nel largo liberato dalla Porta, prima o poi abbia in mente un progetto in merito. 

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