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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Aprite il Museo Archeologico

Un appello sempre più condiviso per progettare e allestire di nuovo quei musei perduti che Forlì non sa di avere

Il Museo Archeologico “Santarelli” di Forlì comincia a far sentire la propria voce. Da tempo, forlivesi “di ogni ordine e grado”, si sono dimenticati delle importanti testimonianze anche antichissime (si parla di 800 mila anni fa). Non si sta qui a cercare il colpevole di questa gravissima e assurda omissione, vero è che il disinteresse pare inspiegabile. Perché ogni città (ma anche ogni paese) ha un suo Museo Archeologico e Forlì no? Pare proprio che qualcuno non abbia voluto e non voglia prendere sul serio il lavoro paziente e meticoloso di Antonio Santarelli, concittadino dimenticato come le sue scoperte. 

Un appassionato e giovane forlivese, Nicola Marincola, è riuscito in questi giorni a entrare in ciò che era il Museo (dal filmato torna alla mente lo sfacelo del passaggio dell'Isis nei siti mediorientali): pietre inscatolate, teste che “soffocano” protette da teli in plastica, manufatti in scatola, teche ancora allestite a beneficio di Indiana Jones o di artropodi. Il video, grazie alla capillarità di Facebook, è stato visto un po' in tutta Italia e in forza di ciò è stato creato un gruppo “Pro Museo Archeologico Santarelli di Forlì” cui hanno aderito circa cinquecento persone, non solo forlivesi. Tra questi, anche esperti del settore e gente che sinceramente si vuole adoperare per dare una mano per riallestire le raccolte dimenticate. 

Parecchi concittadini, tra l'altro, fino ad ora erano ignari che la Città conservasse questa raccolta ricca di reperti rari, curiosi, originali, interessanti tanto da suscitare ricerche per tesi di laurea e altri studi per addetti ai lavori. C'è pur sempre chi, come segrete vestali, si cura di questo materiale facendo il possibile, evitando il totale deterioramento. In ogni caso la situazione è paradossale e triste e lascia l'amaro di molte domande. 

Perché si sono lasciati passare decenni in tale oblio? Perché un cittadino (questi beni sono pubblici, cioè donati alla cittadinanza) non può visitare il suo Museo Archeologico allestito secondo le più recenti e decorose sensibilità? Perché Forlì, e soprattutto chi ha deciso e può decidere, ha voluto questa conventio ad excludendum che priva la città della sua storia antica? Il Foro di Livio fa quello che può fare – scrivere – ma par proprio che questo argomento ad alcuni susciti fastidio. Inoltre: se è vero che il Palazzo del Merenda ha bisogno di interventi di recupero per la sua vetusta stabilità, perché non si corre al riparo portando via, in luogo sicuro, ciò che vi è di prezioso? Entreranno a far parte del Museo quei reperti che di tanto in tanto affiorano durante lavori stradali (per esempio la “pagnotta di piazzale della Vittoria”)?

Queste domande si possono ampliare anche per il Museo Etnografico, al Museo delle Ceramiche, alla Raccolta Piancastelli e ai Fondi Antichi, all'Armeria Albicini...Insomma: ci sono progetti per fare qualcosa, e qualcosa urgentemente? Si auspica che questo grido sia ascoltato, e si colmi la lacuna che ha impaludato la storia dei Musei Civici dalla fine del Novecento a oggi. Tra l'altro, di questi Musei (cui possiamo pure aggiungere quelli in Palazzo Gaddi, ma a ciascun giorno basta la sua pena) non vi è traccia neppure su internet, confermando la damnatio memoriae. 

Eppure la storia archeologica di Forlì, esaltata nel 1996 con un importante convegno internazionale, ha radici antichissime. Nel Quattrocento, un'inondazione del Montone rende ai forlivesi la scoperta di mosaici, sepolture, monete d'oro e misteriose iscrizioni nei pressi della Torre dei Quadri (in viale Salinatore). Altri rinvenimenti nei secoli successivi approfondiranno la conoscenza del Forum Livii. Si dimentica spesso che Forlì è stata anche una città di colti ed eruditi, di accademie e di studiosi, di mecenati e di collezionisti competenti, tanto che nell'Ottocento sorge la necessità di ricostruire la storia urbana con le cose antiche, in linea con l'estetica neoclassica o la riscoperta di Pompei.

La Giunta comunale di allora, preoccupata di conservare e valorizzare tali manufatti, affidò ad Antonio Santarelli, segretario comunale, il compito di sistemare la raccolta antiquaria. Con pazienza, egli battezzò reperti scrivendo a penna in un bigliettino “vasi etruschi”, “epigrafi romane”, “monete”, “medaglioni”, “lucerne”, “maioliche” e minutaglie. Per questo primo Museo, nel 1874, bastavano due sale nel Palazzo della Missione (ora della Provincia), arricchito anche di materiali che nobiluomini forlivesi regalavano alla Città. E queste pietre, così allestite, parlavano di Forlì e della sua storia, della vita di non più muti antenati. Il fuoco dell'archeologia, quindi, pervase Santarelli che iniziò a promuovere scavi. Così, nel 1884 scoprì la stazione preistorica della Bertarina dove tornò alla luce un villaggio a fondi di capanne dell'età del bronzo, attiva nell'età del ferro e in seguito occupata dai romani. In quegli stessi anni farà scavare anche a San Varano, facendo riemergere un insediamento antichissimo, e ancora a Villanova (età del ferro). Forse allora ci si aspettava di trovare qualche indizio della Forlì romana, in realtà si andò molto più indietro nel tempo.

Gli scavi proseguirono anche dopo la morte di Santarelli, specialmente in centro storico (inizialmente sotto il palazzo della Cassa dei Risparmi, o a Ravaldino). Pietro Zangheri, cent'anni fa, individuò il deposito dei Cappuccinini e poco più avanti, grazie anche a Pietro Reggiani, si capirà che è Schiavonia la parte più antica della città, o più “romana”, con ponti, mosaici, manufatti e si inizia a fare ipotesi sul Forum. Cent'anni dopo, l'impegno di questi forlivesi dev'essere riscoperto e valorizzato, per consentire di ritrovare un'identità perduta ma ben presente sotto l'asfalto di Forlì. Sono relativamente recenti le scoperte di Monte Poggiolo: quarant'anni dopo le pietre scheggiate da antenati di specie ancestrali sono in attesa di essere esposte e conosciute con tutto il resto del Museo, magari in modo permanente nelle sale al piano terra del San Domenico, in modo tale da essere viste anche dai turisti che affollano le mostre temporanee. 

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