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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Chi può accedere alla Ripa?

Mastro Michele e gli altri: gli uomini che potevano varcare la soglia del grande complesso monastico forlivese

Per secoli luogo di sole donne, poi di soli uomini, da decenni terra di nessuno. Ogni tanto è bene ricordarsi del Monastero della Torre, noto ai più come “Santa Maria in Ripa” oppure “Ex distretto”. Se ne parla anche stasera in un incontro pubblico nel vicino giardino della Trinità in corso Garibaldi, dove, dalle 18.45, si proporrà tra le altre cose la costituzione di un comitato per salvare e progettare una nuova vita per il vasto isolato quattrocentesco che, se va avanti questo andazzo, sarà un cumulo di macerie.

Da troppo tempo, infatti, la muraglia di mattoni che costeggia via Curte e via Giovine Italia è ancor più inaccessibile dei tempi della clausura e della zona militare. A proposito del lungo tempo in cui fu un prospero monastero la cui eredità spirituale è raccolta dalle sorelle clarisse in San Biagio, spunta una carta dove si capisce che solo pochi uomini potevano accedere, essendo una città esclusivamente di donne. Così, ecco la “Tavola di quelle persone che la Reverenda Madre Abbadessa del Monastero di S. Maria in Ripa potrà introdurre dentro detto Monastero senza altra licenza concorrendosi però sempre causa necesaria, osservando gli ordini soliti della clausura”. 

Il documento fa parte dei fascicoli sulle congregazioni soppresse conservati all'Archivio di Stato e leggendo tali righe riemergono nomi e personaggi che la storia ha dimenticato, forlivesi comuni che hanno avuto il privilegio di accedere alla città di sole donne. Porta la data del 4 luglio 1777, poi corretto a settembre dello stesso anno (pertanto compaiono cancellotti) e vidimato dal canonico Valentini.  Così, si sa che all'interno della “città proibita”, poteva entrare sicuramente il Sindaco, dapprima Ercole conte Gaddi, quindi Cosimo dall'Aste. Erano accetti anche i “fatori” Pietro Milandri (poi cancellato), Giacomo Lavagnini e Andrea Tomedei. E poi i medici (“il signor dotor Nicola Vesi, Luigi Panziroli, Francesco Fontana, Carlo Cignani”), i chirurgi (“signor Girolamo Benedetti, Antonio Mateucci”).

Singolare, per una comunità femminile, è il libero accesso dei “barbieri” (allora si dava questo nome anche a chi praticava i salassi), e si citano Alessandro Mattioli e Pietro Zioni. Ovviamente le porte sono aperte anche agli uomini di fatica, come i muratori Vincenzo Moschini e i suoi fratelli, nonché Pietro Ricadini con i di lui garzoni. Il fabbro di fiducia, invece, si chiamava Piersanto Fabroni mentre Mastro Michele era il falegname. Chissà perché c'è un nome cancellato, quello di Piersalvo Zambianchi, ortolano, sostituito da Vincenzo Zavatta. Due erano i “vetrari”, cioè Antonio Calandri e Giuseppe Savelli.

Non poteva mancare il “bianchino”: Antonio Raineri. Sfugge allo scrivente il significato di “matarazaro” (si occupava di letti e materassi?), lavoro concesso a Mastro Giuseppe e Mastro Salvatore, mentre “segantino” era Mastro Dionigio. Esigenze alimentari non potevano lasciar fuori il mulinaio Domenico e il “fornaro” Lorenzo Gualtieri. Vi erano pure esigenze tecnologiche, come il lavoro dell'orologiaio “signor Bernardo Lanzon spagnolo” e, in sua assenza, di Giovanni Campoli. Inoltre “per acomodare l'organo” erano chiamati esclusivamente Andrea Favi o Luigi Mingardi. 

Occorre porre un asterisco: Andrea Favi, più avanti, si distinguerà come direttore d'orchestra del Teatro Comunale, maestro di cappella in Cattedrale e compositore. Sarà il primo nome dell'Accademia Filarmonica di Forlì e fondatore della banda cittadina. Oggi il suo nome e il suo repertorio musicale è sconosciuto alle orecchie dei suoi concittadini. 

Seguono poi istruzioni invero un po' confuse, forse scritte a braccio: “Di più si prega a concedere licenza di potere introdurre i lavoratori delle possessioni del monastero con carri di grano, vino, marzatelli e legna” e lo stesso vale per i contadini “foresti” che avessero seco “grano ed uva ed altro”. A costoro, l'accesso era consentito pure “senza carro per bisogni necessari al Monastero”. E via libera anche ai “contadini dei signori Secolari che devono portare la legna alle Monache, e quei contadini che portano la legna compra”.

Insomma, alla fin fine pare un libero tutti, e il numero si amplia perché viene stilato un elenco di tutte le possessioni del monastero (sono citati i fondi di San Tomè, San Martino in Villafranca, Villafranca, Branzolino, Villanova, Scaletta, Castiglione, Fornò, Casagrande, Sanovella, Caprara, Pievequinta, Cava, Via Lunga, Roncadello, Tombetta) e per ognuna uno o due nomi di famiglie che avevano libero accesso al monastero. Come quelle di Domenico Pasquoni di San Tomè, Antonio Bovelacci da Branzolino, Gian Filippi di Villafranca, Domenico Maria Girelli di Roncadello, Domenico Scozzoli di San Martino in Villafranca e così via.

La città proibita della Ripa era dunque nient'affatto che chiusa come è ora, nascosta alla memoria e da un alto muro più inaccessibile adesso che in quel 1777. Anche per queste vicende di storia minuta è ora di occuparsene seriamente, valorizzando le specificità di un quartiere che, con gli ultimi orti urbani annessi, è pressoché immutato da almeno seicento anni. 

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