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Giovedì, 25 Aprile 2024
Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Cinquant'anni senza "Casermone"

Da florida comunità femminile a caserma, quindi bidonville. Poi la demolizione. Memoria di un luogo che da mezzo secolo non c'è più.

Cinquant'anni fa fu demolito il Casermone. Nel 1970, una decisione facile e sbrigativa (come molte altre nel Novecento forlivese) cancellò un luogo tormentato della storia locale tanto da poter riassumere la vicenda con un modo di dire invero un po' sempliciotto: dalle stelle alle stalle. Chi lo volle, avrebbe tolto ai posteri l'opportunità di cogliere, nella sua integrità, il monastero di Santa Caterina. Oggi se ne vede la chiesa su via Romanello e poco altro, e quello che c'è è pur sempre stato spogliato da decenni di storia militare. 

La vecchia chiesa di San Giuliano era sorta probabilmente nel Duecento. L'8 gennaio 1385, mentre l'abate di San Mercuriale e l'abate di San Rufillo celebravano messa al cospetto di Sinibaldo Ordelaffi, la chiesa crollò. Su ciò che rimaneva fu costruito un monastero le cui monache nel Cinquecento vollero dedicare a Santa Caterina. La comunità di religiose ebbe vita fiorente e un segno concreto di tutto ciò fu l'ampliamento della chiesa nel 1642. La facciata austera e imponente che si vede oggi risale, appunto, a quel periodo. Poi, si sa, venne Napoleone e con lui il decreto di soppressione che volle stravolgere la vita alle settantacinque donne dietro la grata. Si ha notizie di più monache che si rifiutarono di andarsene, pagando una sorta di affitto all'amministrazione francese pur di rimanere nelle celle dell'ormai ex monastero. Tornò agli antichi fasti tra il 1821 e il 28 aprile 1862 quando fu soppresso definitivamente dalle leggi del neonato Regno d'Italia. Pochi anni prima, nel 1857, il complesso monastico di Santa Caterina, vista la sua importanza, aveva ricevuto la visita di Pio IX. Nonostante questo e altro non ci fu nulla da fare: doveva chiudere. Le proteste della Superiora riuscirono soltanto a far sì che la Municipalità tirasse fuori i soldi per il trasloco. Le trentasette religiose, in breve tempo, furono forzatamente trasferite in carrozza tutte a Faenza, presso il convento di San Maglorio, e con loro là andarono alcune importanti opere d'arte. 

Lo Stato unitario aveva in mente altri piani: il grande monastero, come i vasti complessi vicini, doveva diventare una caserma. Così fu: la ristrutturazione del 1882 trasformò l'isolato in caserma "Caterina Sforza". L'intervento fu massiccio ma la struttura, nel suo complesso, venne preservata: un po' come accadde per il monastero della Ripa (a proposito: ci sono progetti in merito?). In questa nuova veste ebbe comunque importanza nella storia cittadina per due motivi: in primo luogo fu sede dei "Gialli del Calvario", l'11° fanteria Casale che nel 1918 conquisterà il Monte Calvario liberando poi Gorizia, e poi perché qui testimoniò i suoi primi esercizi di carità Annalena Tonelli. Infatti, la caserma "Caterina Sforza" chiuse con la Seconda guerra mondiale e gli spazi militari furono occupati da sfollati e senzatetto. Una vera e propria bidonville, così la definiva la stessa Annalena, in effetti il panorama doveva essere terribile. C'è però chi conserva buoni ricordi di quel luogo, forse edulcorati dai tempi passati della gioventù. Sfollati, abusivi, gente rimasta senza casa dopo i bombardamenti condivideva la stessa sorte; chi se la cavava dignitosamente, chi viveva di espedienti come piccoli delinquenti o prostitute. Nel dopoguerra vi stavano 150 famiglie in abitazioni malsane e lontane da ogni requisito igienico. Le famiglie (anche otto o più persone) avevano a disposizione una stanza, però le camere erano comunicanti in modo tale che si attraversassero diverse abitazioni di continuo, vedendo tutto di tutti, intimità comprese. C'è poi chi parla di gallerie sotterranee: un mondo misterioso e pericoloso ma pieno di fascino per bambini costretti a crescere con scarse risorse economiche. Echeggiano ancora, in chi lì visse, nomi epici, veramente quasi omerici: Cainero e Piritone, i re del Casermone. Tutto questo mondo fu poi (almeno per la maggior parte) trasferito nel nuovo villaggio di case popolari costruito alla Cava

L'area fu acquistata dal Comune nel 1962 e in quegli anni si pose il problema di un degno risanamento nonché soluzioni dignitose per le oltre cento famiglie ancora nel Casermone. Tuttavia si scelse, anziché recuperare, di demolire. Nel 1970 fu rasa al suolo la quasi totalità del monastero articolato su due chiostri aperti per costruire quello che si chiamava Istituto Professionale Femminile "Melozzo da Forlì" (oggi Istituto Ruffilli) nel 1973. Ciò comportò un danno gravissimo al patrimonio storico-artistico e una ferita per la tutta la città. Nessuno, dalle parti del Municipio, aveva fatto pesare il valore monumentale, la necessità del restauro né l'esigenza della sua conservazione. Nella parte su viale Salinatore fu costruita in seguito una palazzina di edilizia popolare specialmente riservata a militari. Sopravvisse la chiesa di Santa Caterina, più che per sensibilità storica, perché era ancora piena di sfollati: la vasta aula un tempo dedicata al culto era addirittura divisa in quattro piani. Successivamente, un importante lavoro di recupero ha ben salvato il salvabile, riscoprendo la chiesa come "Sala Santa Caterina" e i pochi altri edifici che si sono preservati. 

Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del Novecento altri conventi del centro storico furono sventrati e cancellati per costruire scuole o case popolari. Così il piccone distrusse il convento annesso a San Filippo Neri (ove oggi sorge l'elementare Diego Fabbri), spianò il già compromesso monastero di Santa Maria della Neve (ove fino a qualche anno fa esisteva la media Maroncelli, oggi inagibile). Inoltre, sempre in tempi recenti, fu totalmente demolito ciò che avanzava del primo convento francescano di Forlì che i più ricordano come scuola elementare di via Francesco Nullo. Nell'interesse della città e dei cittadini e per rispetto della storia e della bellezza, è bene che l'enorme complesso di Santa Maria della Ripa non segua la medesima sorte né sia abbandonato a se stesso, evitando che crolli per conto suo. 

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