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Il Foro di Livio

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A cura di Umberto Pasqui

Come cantava Masini?

Il tenore angelico si rifiutò di incidere su disco il suo canto. Da Forlì al mondo, la storia di una voce perduta

Il senso che dalla storia riceve meno appagamento è l’udito. Cioè, se si risale indietro nel tempo è impossibile ascoltare la voce dei personaggi di cui si parla. Sembra un vezzo, ma si pensi a quanto la voce, nell’esperienza del quotidiano, sia importante come tassello indispensabile per la conoscenza e la definizione del prossimo. Impossibile, dunque, risalire alla parola parlata da Caterina Sforza, solo per fare un esempio, o ai vari Ordelaffi che si sono succeduti. Con tecniche all’avanguardia si riesce a recuperare qualcosa, qualora se ne sia conservato lo scheletro, ma si tratta di ricostruzioni chissà quanto vicine alla realtà. È però da poco più di un secolo che alcune delle voci sono cristallizzate in supporti della tecnologia del tempo e, seppur deteriorate, continuano a scaldare. E poi c’è il caso di Angelo Masini, una figura emblematica di una Forlì che si appassionava con il melodramma grazie anche al Teatro che non si è più voluto ricostruire. Il “tenore angelico” forlivese, infatti, non volle incidere su disco i suoi virtuosismi: non perché allora non fosse possibile, ma proprio perché non volle. Tale gran rifiuto non consente ai posteri di godere dell’arte del personaggio, ancor più affascinante perché, nella storia, spesso le cose che mancano sono più interessanti di quelle che restano. 

“È una voce di paradiso che non gli si vede uscire di bocca e par che venga dall’aria”, resti questa suggestione, un parere autorevole, del collega Francesco Tamagno che così consigliava il cantante forlivese a Edmondo de Amicis.  Angelo Masini, nato a Forlì il 28 novembre 1844, fu così geloso della sua voce tanto da negarle la registrazione. A Pietroburgo, intorno all’anno 1900, conobbe uno dei dirigenti della Berliner Record, ricevette numerose offerte e cospicue per un’incisione discografica ma rifiutò, anzi, “sventò tutte le nostre lusinghe”. Questa vicenda è riportata dal musicologo Rodolfo Celletti, invitato dal Comune di Forlì a un convegno su Angelo Masini nell’ottobre del 1976 dove, con un breve saggio, si tentò di percepire un po’ del talento perduto. “S’era infatti già ritirato dalle scene e non voleva avere più nulla a che vedere con il canto; – così si legge – per questo motivo non abbiamo, su Masini, quella sia pur precaria testimonianza diretta che invece ci è stata tramandata dai cimelii incisi da cantanti come la Patti o Tamagno”. In mancanza d’altro, si può quindi intentare un processo indiziario basato sullo stile degli imitatori e dei continuatori del forlivese. Non è questa la sede per approfondire troppe questioni di belcanto, seppur interessanti, basti aprire la pagina di Youtube e cercare Sobinov, Smirnov, Lemeshev, tenori russi che possono considerarsi dapprima “imitatori” poi “continuatori” di Masini. Là, a Pietroburgo, infatti, ebbe il maggior numero di discepoli (vi cantò per ventisette stagioni, e sedici a Mosca). Eppure oggi, questa voce, sarebbe fuori moda: i tenori contemporanei hanno seguito altri maestri e altri stili, il tipo “paradisiaco” può considerarsi estinto. Fermo restando che molti dei nomi acclamati oggi, allora sarebbero stati scialbi comprimari. 

“Masini non ebbe mai, che si sappia, acuti eccezionali per potenza e squillo”, si legge nel saggio, anzi, la sua peculiarità era “la capacità di usare continuativamente la mezza voce”. Pratica anch’essa oggi estinta, che pone l’accento sulla “intensità intermedia”. Tuttavia si ricordano “scatti e impeti caldi e vigorosi”. Venne amato per il suo temperamento interpretativo ma non passò per grande attore: “I vocalisti puri tendono alla stasi, in palcoscenico, perché concentrano tutte le loro risorse sulla qualità del canto”. Ulteriore cifra di Masini era “la sensazione di essere lievemente velato”, per meglio dire, cantava con una “lievissima velatura” che dava “un senso di commozione, di raccoglimento estatico, di suono che viene dal cielo”. Pertanto fu considerato il “tenore paradisiaco” per eccellenza. 

A Vienna, nel 1877, di lui si disse: “Il suono della sua voce è dolce e vigoroso a un tempo, d’una freschezza giovanile che incanta a primo ascolto”. In Spagna (1881-82), così si riassunse: “timbro stupendo, grande originalità interpretativa, forti capacità emotive nel canto spianato, flessibilità, grazia e leggerezza in quello vocalizzato, incanto della mezzavoce” benché da quelle parti fosse criticato come esibizionista e puntiglioso. A Napoli (1885), raccolse questa recensione: “A mezzavoce egli fa trilli, agilità, picchettati, come un soprano leggero, come la Patti, e senza usare falsetti e senza alcuna impostura”. Eppure, la grande fama internazionale si spense con la sua morte, nel 1926, mentre a Forlì, anche grazie alla sua munificenza, il di lui nome si perpetuò.
“Masini – si riporta nel saggio - non ebbe la fortuna di legare il proprio nome alle prime esecuzioni di opere celeberrime e, inoltre, svolse la propria attività soprattutto a Madrid, Barcellona e Pietroburgo, città un poco defilate sotto il profilo culturale e mondano”.

Si è dunque davanti a una voce descritta, e già è un paradosso. Anche perché il tentativo tutto intellettuale di ridurre l’argomento ad “affare per pochi” è in realtà un controsenso: come si può far rivivere o comprendere il canto di un tenore che scaldava i cuori di moltitudini di persone di ogni censo a diverse latitudini? Un articolo, uno studio, non potrà mai sortire il medesimo effetto, ma più di così non si può fare. E il segreto rimane sigillato nella tomba di Masini che con sè, come un vecchio del mondo antico, volle sepolta la cosa che gli era più cara: la voce. Voce allevata, ammaestrata a suo tempo dalla maestra Gilda Minguzzi e cantata in luoghi così lontani. Quando era in vita era patrimonio condiviso, oggi resta oltre un diaframma che potrà soltanto essere appena intuito ma mai svelato. 

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