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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

A Forlì, Dante vide l’11 settembre

Nel 1970, uno scrittore senza volto vagheggiò qualcosa di molto simile al tragico evento che diede inizio al secolo attuale

A proposito di Dante, a proposito di undici settembre: a Forlì vide la luce un caso letterario a dir poco esplosivo. Ma fu una bomba la cui esplosione non sentì nessuno, trasformandosi in un soliloquio delirante. Nel 1970, in corso della Repubblica, l’Hotel della Città ospita artisti di vario genere. Tra essi un misterioso Dante Virgili, plausibile pseudonimo di un bolognese di cui non esiste nemmeno una fotografia. E qualcuno ha dubbi addirittura sulla sua esistenza. Vissuto tra il 1928 e il 1992, è un nome sconosciuto ai più. Personaggio, come detto, sfuggente e controverso, definito generosamente il Celine italiano da alcuni, semplice psicopatico da altri, visionario, fallito, modesto correttore di bozze, erotomane farneticante e chi più ne ha più ne metta. Fu autore di libri per ragazzi pubblicati sotto vari pseudonimi. Curiose, inoltre, sono le sue ricerche storiografiche sulla “legione straniera del nazismo”, o sulle “SS britanniche” (Britisches Freikorps der SS), acquartierate in Francia fino allo sbarco in Normandia. 

Venendo al caso forlivese v’è da dire che qui Dante Virgili trovò sfogo il suo profondo odio per il mondo uscito dalla Seconda guerra mondiale. Nostalgico del nazionalsocialismo germanico, fu ben presto emarginato e visse nel più totale silenzio da quella primavera del 1970, quando fu pubblicata da Mondadori una sua inquietante apologia del nazismo senza che nessuno se ne fosse accorto. Perché, è vero, di cose scritte male ce n’è a iosa: ma questa approdò ai prestigiosi tipi della nota casa editrice. Chi aveva scelto il manoscritto che, da chi l’ha letto, è definito senza mezzi termini “il primo romanzo italiano apertamente nazista”? Vagliato attentamente da un gruppo d’intellettuali, fu messo a riposo per circa due anni, poi lo si fece uscire con lo scopo di accendere polemiche e rivitalizzare la scena letteraria nazionale.

Questo libro, “La distruzione”, fu scritto proprio a Forlì. La città romagnola aveva, in quel momento, la torre civica mozzata alla base, una ferita della guerra che poi fu sanata alla fine degli anni ’70. E anche il campanile del Duomo fu ricostruito in quel tempo. 

Torri atterrate e rimaste per anni a testimonianza della distruzione, appunto. Ben diversi erano gli ambienti disegnati da Giò Ponti, i locali della Fondazione Garzanti, perno di una Forlì che sapeva farsi valere senza troppi complessi d’inferiorità. Che siano questi scorci ad aver dato il la al romanzo maledetto, pieno di sincopi, di frasi strozzate, infarcito di termini tedeschi e futurismi tanto che la trama si perde in una specie di autobiografia onirica? Il lettore si smarrisce tra le pagine, incapace di seguire tanti contorti pensieri, ma la prosa scabra, visionaria, perfida, nasconde il lamento di un reietto, di un cane sciolto. 

Una delle ossessioni di Virgili trattate ne “La distruzione” potrebbe essere cara ai contemporanei complottisti: Roosevelt provocò l’attacco di Pearl Harbour. “Ardeva dalla voglia il vecchio pazzo per coprire il fallimento del New Deal”. E ancora: “Sua l’idea della resa incondizionata e dello smembramento della Germania. Piano Morgenthau il popolo tedesco ridotto alla pura sopravvivenza. Dovranno leccarsi i baffi disse a Quebec quando gli passeranno una minestra. Ciò nonostante non sanno più ODIARE. Malgrado le immense ferite la furia dei Terrorbomber. Ma la prossima volta. Non saranno eterni santuari le città yankees combuste dilaniate. VEDO i grattacieli di acciaio sotto un diluvio di fiamme. Milioni di cadaveri panico selvaggio. Da una guerra all’altra più feroce. Hitler non ha colpa di nulla. Gli eventi umani si sviluppano attraverso un corso infrenabile che porta alla guerra. Non resta che attendere l’ultima la definitiva”. E poi: “Colonne di fuoco alte come grattacieli torri crollanti in un orizzonte sconvolto” e ancora “vedo i grattacieli d’acciaio in un diluvio di fuoco”. Che dire, dunque, di questa preconizzazione dell’undici settembre americano immaginata in corso della Repubblica? Il volume sparì presto dalla circolazione ma riapparve nel 2003 per l’editore Pequod, e anche in questo caso passò inosservato. 

L’incipit, dunque, suona così: “Chi sono io perché sono qui. Giro il capo sul cuscino apro gli occhi. Intravedo gli arabeschi grigi della trapunta sul fondo giallo del tessuto. Il sudore mi bagna il collo, il petto. Deviando un poco lo sguardo colgo il riquadro del muro alla base della finestra, le persiane accostate. Tutti gli oggetti mi appaiono informi nella penombra. Una sensazione sgradevole m’investe all’improvviso dove devo essere più tardi come il passaggio di una lama sul vetro”. Inquietante, delirante, Virgili vede anche la fine dell’umanità: “In ultimo un conflitto nucleare mi salverà. È fatale che scoppi prima o poi. DEVE scoppiare. Si strazieranno a vicenda bruceranno vivi nel loro calderone da streghe. Si macereranno in un’orgia di fuoco. La fissione di un chilogrammo d’uranio Bomba H. Pari a tutte le bombe esplose sulla Ger. Mi farò grasse risate. Dieci minuti prima di morire. Morire ridendo. Die RACHE la sola cosa che importi. Il più alto destino dell’uomo. Le loro città dilaniate. Incenerite. I loro bambini carbonizzati i treni pieni di bimbi a Dresda. Un lungo fiume di fuoco solo fuoco fuoco dappertutto fuoco e ceneri ceneri ceneri e fuoco e ancora ceneri. Emetto singulti ho come un principio d’estasi. E urla inumane il terrore atomico fra i popoli. Poi il silenzio ovunque sullo sferoide terrestre. Un gelido chiarore violaceo. Ora tutto è grigio. GRIGIO. Nero chiaro”. Il resto della storia non ha un capo né una coda razionali, esplode in scoppi d’ira e lampi di tenerezza, vaga negli incubi, tra deliri nazisti e morbosità. Nella trama, s’intuisce un uomo repellente che, in una calda estate, sogna l’apocalisse nucleare e rimpiange il Terzo Reich, ricordi di gioventù, quando era interprete delle SS e innamorato di una ragazza chiamata Bianca. A guerra finita, lavora come correttore di bozze e sfoga le sue frustrazioni scrivendole con l’inchiostro dell’odio, confidando in una terza guerra mondiale. Come spesso capita in questi casi, il libro è diventato – a suo modo – una sorta di oggetto di culto.

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