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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

L'esclusiva “P” di Forlì

Il dialetto forlivese si distingue dagli altri romagnoli per una singolare desinenza dei verbi al passato.

Se l'altra settimana si era tentato di riscoprire come la lingua madre, l'Italiano, possa avere in un forlivese il suo padre almeno per quanto riguarda la codificazione grammaticale, in questo giorno dedicato a San Giuseppe si vuole rispolverare la lingua dei babbi di una volta: il vernacolo. Un libro, scritto in un periodo in cui il “romagnolo” era lingua veramente viva e incorrotta, racconta le differenze espressive della Romagna dei campanili. È il “Saggio sui dialetti gallo italici” di Bernardino Biondelli, pubblicato a Milano nel 1853 da Bernardoni e in tempi recenti riproposto in ristampa anastatica in quel di Bologna da Forni. È interessante perché il dialetto che qui si legge è puro, arcaico, stretto, non quello mal restituito e goffo di chi tenta oggi un primo approccio: fino all'Ottocento ci si capiva a malapena all'interno della stessa Forlì! In esso si legge che la differenza di pronuncia fa sì che “il romagnolo settentrionale intende appena il meridionale e viceversa, sebbene parlino in sostanza un solo dialetto”. Per provare quest’asserzione, l’autore tira in ballo il Vangelo. È la parabola del Figliol prodigo, infatti, la cartina di tornasole per leggere le differenze tra la lingua di Imola e quella di Rimini, per esempio. La parabola viene tradotta integralmente (qui ne è riportato solo l’inizio) da autori citati tra parentesi: tali nomi non sono pervenuti per il riminese, il cervese e il romagnolo di Cattolica. Eccone i testi. 

Faentino (Antonio Morri): “U i fo un sgnòr, ch’aveva du raghèz; un dé e piò pznén u i dess: Bab, dem la mi pért dla roba ch’a m’ toca; e e pèdar e fé sòbit a e mòd de fiòl. E quand che l’eb bèll e che avù tot que oléva, e tòs so, e u s’ mess a viazér e mond, e a divartisia a piò non poss”.

Ravennate (Jacopo Bandoni): “Un òm l’aveva du fiul. E e piò zòven d’ lor dess ae päder: Bab, dasìm la mi pärt ch’a ,’ tocca; e lo e fasè al pärt. Dop a puc dé e piò zòven, fatt e fagòt, u s’n’andè in t’un paés lontàn, e dasè fond a tot, vivènd da gran sgnoràzz”.

Lughese (Domenico Ghinassi): “Un om l’aveva du fiùl. E piò pznèn e dèss a su pèdar: Bab, dasìm la pärt dla mi roba ch’a’m tocca; e lò e fasè al pärt tra d’lo dal su sustänz. Da lä a puc dä, mess insèn ch’l’avèt ogni cosa, u s’n’andè in t’un pajés luntän, e e strasciné tot quel ch’l’aveva in t’i vezi”.

Imolese (Antonio Mancurti): “Un òm l’aveva du fiuò; e é pio zuvnàzz u i dèss: Bab, dèm la pärt dla ròba ch’u m’ tocca; e lo u i fé la partiziòn dla ròba. Dop puòc dè, cstò e tuòs so la so pärt, e u s’n’andè in viaz lontàn lontàn, e è dè è fòm tòtta la so ròba, fasènd na vita da scausträ”.

Forlivese (Antonio Matteucci): “U i fop un òm ch’l’avè du fiùl; E e piò pèccul e giè a e su bab: Bab, ch’a nu m’ dasì la pärte d’ quel ch’u m’ toche? E lo u i la dasè. Dop a quèic dé, e piò pèccul, racòlt ch’l’avè tot quel che e su bab u i aveva dä, e tuss so, e l’andèp in t’un paiès luntàn, e ilè u s’strusciè ignaquèl, mnänd una vite da baraccòn”.

Riminese: “I era un zert òm ch’l’aveva do fiol; E piu pznèin d’lor e dèss m’e pèdre: Bab, dasìm la pèrta dla roba che m’tocca; e e so bab e sparté la roba, e ei desé su pérta. E dopo poc giorne e mané tot ni còsa st’fiol più peccul e s’mité in viaz, e l’andasé t’una zittà da luntän, e ilà e strusciò tot la su roba vivènd cun grän luss”.

Cervese: “Un zert òm aveva du fiùl; E più zòvan dess a e pàder: O bab, dasim la part ch’a m’ toca d’mi porsiòn; e lo e fez al parti fra i du fiùl. Dop poc gioran fasè fagoòt e più zòvan d’tot al su coss, e u s’ portò vagànd in lontàn paès, dov’e strussiò tot al so sostanzi, tnend una vita lussoriosa”.

Cattolichino: “Un òm ch’aveva du fiòl; E’l pznén d’ quist u s’ fasè dè tuta la su porziòn dal bab; e l’andò a dissipale in birbarì con dle donazzi in paès lontèn. Dopo ch’l’avé sprecheda tuta, a s’ridùss a paré i baghin, per potér viv”. 

La traduzione è preceduta dalla spiegazione delle differenze delle inflessioni romagnole. In primo luogo si dice che “i dialetti emiliani sono divisi in bolognese, ferrarese e parmigiano. Il gruppo bolognese è formato dal bolognese propriamente detto, dal romagnolo, dal modenese e del frignanese”. Del romagnolo “che occupa le due legazioni di Forlì e Ravenna” si precisa che “è piuttosto un gruppo di dialetti affini, che non uno solo, mentre, non che ogni città, ogni borgo e separato castello ha pronuncia e flessioni speciali”. Infatti, distingue il ravennate dall’imolese, il forlivese dal cesenate e il riminese: il faentino riassume “le proprietà più normali”. In comune, quindi, “tutti questi dialetti distinguonsi dagli altri emiliani per l’articolo maschile e’ : e’ fiòl, e’  sgnòr, e dal pronome personale u: u déss (egli disse), u vléva (egli voleva), i quali negli altri dialetti sono rappresentati dalla voce al: al fiòl, al dèss”.

In particolare, il faentino e il ravennate “evitano la collisione delle consonanti sm, rm, lm nella medesima sillaba, frapponendovi l’ultima vocale che scambiano d’ordinario in u muta”. Un esempio? Entusiasmo-entusiasum, enorme-enòrum, informe-infòrum, elmo-èlum, infermo-infèrum. Poi “evitano l’accozzamento delle rn frapponendo un’a muta”, come corno-còran, eterno-etèran,  governo-gvéran.

L’infinito dei verbi, se a Faenza termina in “é” stretto, nelle altre città romagnole esce in “ä”: cantare-canté-cantä, entrare-intré-inträ, mangiare-magné-magnä.  Altra inflessione faentina è “il volgere sovente la d in g”, come capita per: tedio-ategi, bandiera-bangera, invidia-invigia, misericordia-misericorgia, obbediente-ubigènt o “permutare il suono c in z aspra”, vedi: facile-fàzil, domicilio-dumizeli, cervello-zervél, accidia-aczidia.

Il ravennate, però, “è distinto dal faentino per una pronuncia molto più aperta, per maggiore frequenza di suoni nasali prolungati e pel concorso di doppie consonanti. Inoltre permuta sovente la s in sc”, come in: nessuno-niscion, venne-vensc, compiacersi-savurisc.

L’imolese, invece, simile nella pronuncia al bolognese, si discosta da questo e dalle altre cadenze romagnole per il particolare dittongo uo: figlio-fiuò, morto-muòrt, poco-puòc, porci-puòrz, cosa-cuòssa, inoltre, “volge in éja la desinenza italiana ia, mentre gli altri romagnoli finiscono in ì”, come per: malattia-malattì-malatteja, carestia-carestì-caresteja, osteria-ustarì-ustareja

“Il cesenate e il forlivese depongono a poco a poco l’asprezza del romagnolo settentrionale diminuendo l’elisione delle vocali e quindi il frequente accozzamento di più consonante unite”, infatti, prosegue il linguista, “laddove i romagnoli settentrionali volgono in z il suono italiano c, i meridionali volgono la c e la stessa z in s”. Come nel cesenate senza-sensa. Inoltre, “incomincia a sentirsi l’accento marchigiano nella cadenza delle frasi, nelle quali appaiono radici e forme ignote agli altri romagnoli come giè (gire), bab (babbo), a m’ mor (io mio muoio), u s’ sarì magnà (si sarebbe mangiato)”. 

Il forlivese, invece, si distingue, per un’“esclusiva proprietà” di terminare in p la terza persona singolare nel perfetto di molti verbi, quando è seguita da vocale, dicendo: andò-andép, mandò-mandép, chiamò-ciamép, fu-fop. Inoltre, a Forlì si suole “permutare in e muta l’a finale degli imperfetti, come pure di parecchi nomi e avverbi. Ciò capita per: era-ere, voleva-vleve, veniva-vneve, roba-robe, festa-feste, allora-allore, senza-sense.

Insomma, ci sarebbero altre argomentazioni ma la lettura potrebbe annoiare. Se poi si ascolta con attenzione la testimonianza di Missirini nella sua “Guida raccontata”, si aprono squarci interessanti e purtroppo perduti: le sfumature, le inflessioni, che differenziavano la parlata di Schiavonia da quella di Borgo Cotogni. Ogni rione forlivese aveva, per così dire, il suo dialetto. E chissà le campagne... Prima di perdere tutto, bisogna raccogliere quanto rimasto.

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