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Il Foro di Livio

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A cura di Umberto Pasqui

Dov'è l'ospedale di Ospedaletto?

Una zona trafficata della città è stata per secoli ricovero per pellegrini. Una periferia di Forlì dalla lunga storia.

Ospedaletto è un toponimo comune. A Forlì prende questo nome un agglomerato di case su via Ravegnana, tra la Pianta e Coriano. Un luogo dai confini imprecisi e dalle origini misteriose. Se, infatti, la Pianta e Coriano hanno un'identità più definita (per esempio, sono parrocchie con un proprio cimitero...), Ospedaletto, o L'Ospedaletto, per i dialettofoni: Bsdalét è sfuggente. Rappresenta un punto nevralgico della città, spesso trafficatissimo, che ha inizio da un rettilineo ombreggiato da pini lungo la Ravegnana e una singolare diramazione a più vie: Somalia, Zampeschi, Ravegnana, Cervese, Orceoli. L'incrocio, degno dei più complessi test per scuola guida, circa dieci anni fa è stato risolto in rotonda. Poi la Ravegnana continua, tra campagna, case, nuovi condomini e distributori di carburante, fino a Pieveacquedotto. Oggi l'Ospedaletto è un quartiere assimilato alla Pianta dall'odonomastica suggestivamente coloniale e ricca di capitani di ventura, e Coriano, la cui zona più recente prende ispirazione da personaggi cari all'unificazione europea pur non mancando celebri giuristi del passato. Ogni forlivese associa questo nome alla rotonda, come detto, a più uscite, in mezzo alla quale spicca una specie di creatura degli abissi che in realtà è un impianto luminoso. Pare evidente l'etimologia: ospedale? Ma dove si trova?

Non si dimentichi che la Ravegnana era parte della via Romea che conduceva i pellegrini dalla Germania a Roma. E i pellegrini avevano pur bisogno di case per ristorarsi, per curare le piaghe inevitabili nel lungo viaggio, per corroborare anima e corpo. Così anche qui c'era un hospitalium. Doveva consistere in un casale dotato di posti letto e zone riservate ad appestati in quarantena: in poche parole, l'ospedaletto, per quei tempi, era una tappa fondamentale. Un ostello gestito da religiosi, con vitto e alloggio; in caso di pestilenze si convertivano in veri e propri luoghi di cura, per quel po' che si poteva curare allora. Non era certo una cosa singolare, questa, dato che a Forlì in tempi antichi esistevano diversi ospedali, in verità poco più che ospizi per pellegrini. Curioso, invece, è che di questo le fonti antiche parlino poco. Il più vicino hospitalium della zona doveva essere quello detto di Vico, presso San Giovanni de Jerusalem. Ma tale luogo di memoria millenaria corrisponde all'attuale chiesa di San Giovanni Battista, detta più comunemente dei Cappuccinini.

Il Libro Biscia di San Mercuriale, contenente antiche pergamene vergate tra il IX e il XIV secolo, è una miniera di nomi caduti in obsolescenza da secoli e nulla sembra indicare l'Ospedaletto in questione. Già mille anni fa, per contro, si menziona la Pianta (Plancola) e Coriano (Curilianus), cresciute attorno a due pievi: Santa Maria in Trentula e San Giovanni de Curiliano, rispettivamente le parrocchiali delle suddette frazioni. Poi, però, sempre nel Libro Biscia, si legge che il 30 aprile 1313, frate Diotaiuti, in occasione della festa di San Mercuriale, consegna a don Bartolo una libbra di cera novella quale censo annuo pro residuo dicti loci et hospitalis. Don Bartolo è l'abate di San Mercuriale, mentre frate Diotaiuti (in originale Deutaidi) svolge la sua missione nell'ospedale di San Michele, allora retto dal priore Pagano. L'ospedale di San Michele era comunemente noto come hospitale Sancti Acurimberti, un'intitolazione così bizzarra tanto che a poco a poco prese il sopravvento la dedica a Sant'Andrea e, più tardi, a San Colombano. Il luogo era dunque una dipendenza di San Mercuriale sulla strada per Ravenna, la città che, oltre per mosaici e relitti bizantini, in quegli anni era nota soprattutto per la malaria e altre morbilità. Per entrare a Forlì in salute, quindi, occorreva un luogo dove passare qualche giorno in quarantena. Così, pellegrini, viaggiatori e commercianti, sostavano al Sant'Acurimberto per scongiurare nefasti contagi, insomma, una storia che purtroppo pare vicina a noi. Per monsignor Adamo Pasini l'ospizio era nel terreno occupato dalla villa Bondi Matteucci, "a due chilometri dalla Barriera Mazzini", cioè la stessa distanza tra la fine del corso e la rotonda citata, ed era poco distante da Santa Maria in Trentola, in poche parole era l'ospedale della Pianta. Per il Libro Biscia, come già scritto, doveva pagare un censo a San Mercuriale ed era situato in località Lusura, nome oggi oscuro ma afferente comunque alla Pianta. Forse per refuso, il luogo è citato anche col nome peccaminoso di hospitalis de Luxuria. Si sa però che aveva beni propri, accresciuti da Taddeo abate nella seconda metà del Trecento. E Lusura dovrebbe essere il nome antico dell'Ospedaletto, là dove viveva Giovanni di Baldolo che nel 1253 pagava dodici denari di censo all'abate Iacopo di San Mercuriale. Poi, nel Cinquecento, prevalse il toponimo attuale per descrivere il gruppo di case sorto attorno all'ospedale declassato (da cui il diminutivo) in seguito alla concentrazione dei vari ricoveri cittadini nell'Ospedale Casa di Dio (quello che oggi è noto come Palazzo del Merenda in corso della Repubblica). In altri tempi, si crede che l'Ospedaletto sia stato un campo militare allestito dai soldati di Napoleone; non è un caso, dunque, se alcune strade in zona abbiano nomi che ricordano quel periodo. Nell'Ottocento fu una fermata della tranvia Forlì-Ravenna, infrastruttura che, secondo canoni contemporanei, sarebbe da ripristinare. Così, ancora oggi, l'Ospedaletto rimane uno snodo nel traffico; il chilometro zero della Cervese, la Ravegnana (entrambe strade insufficienti e superate per raggiungere la costa), via Zampeschi, via Orceoli, via Somalia s'incontrano in una rotonda che regola il traffico del piazzale intitolato alla madre di Giuseppe Mazzini.

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