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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Fumata dolce per l'Eridania

Simbolo della città un po’ agricola un po’ industriale, di recente lo zuccherificio è stato acquistato dal Comune. E adesso? Umile promemoria progettuale

Nel 1913 la produzione nazionale di zucchero fu più alta del previsto. Di conseguenza la società Eridania decise di fermare temporaneamente alcuni stabilimenti e tra questi venne indicato quello di Forlì. Così la grande industria, sorta da poco più di un decennio, per circa un anno si fermò. In un periodo già di nervi scoperti per l’imminente scoppio della Grande Guerra, questo fatto ebbe un impatto enorme sulla vita sociale ed economica della città. Come se non bastasse, negli anni della Prima guerra mondiale il prodotto forlivese dell’Eridania era venduto a prezzo ridotto perché destinato ad approvigionamenti militari.  
Sul “Pensiero Romagnolo” del 15 marzo 1914 si fa della sapida polemica, soprattutto contro l'organo di stampa avversario, “La lotta di classe” di evidente matrice socialista.

Il tema è “la chiusura dello zuccherificio”. I redattori de “La lotta”, secondo i repubblicani, “danno prova così manifesta del loro basso livello mentale da non rendergli degni di polemizzare se non cogli alunni dell'Asilo infantile”. Perchè? “Appena si dichiara dall'Eridania che il (sic!) zuccherificio sarà chiuso, la Lotta rimprovera la parte nostra di non scongiurare la chiusura, ma appena la parte nostra si muove, la rimprovera del contrario. La Lotta sostiene che non si deve trattare coll'Eridania e quando l'Eridania dichiara di chiudere si mette a strillare che l'Eridania ha turlupinato coltivatori e consumatori! Ora ad uno dei due corni del dilemma la Lotta deve appigliarsi”. 

La prosa tagliente tra due settimanali forlivesi fa capire che il vecchio zuccherificio, quella specie di transatlantico naufragato in mezzo alla selva tra la ferrovia e la periferia, rappresenta un simbolo per questa città. Pertanto pare lodevole il fatto che il Comune ne abbia fatto una sua acquisizione, con la speranza che la fabbrica subisca poche manomissioni e che pure l’ampia fetta di verde preservi il suo carattere selvatico a mo’ di bosco urbano, “Bosco Livio”, per così dire. Rappresenta un simbolo perché è forse la struttura che più testimonia lo spirito della città nell’euforico trapasso tra Otto e Novecento, quando l’agricoltura sposò l’industria. 

A fine luglio, mentre le barbabietole erano giunte a maturazione, si apriva la stagione che sarebbe terminata ai primi di novembre. In questi mesi si vedevano fino a quattrocento carri sostare nei pressi della fabbrica in attesa di scaricare la materia prima. Un binario speciale conduceva il tram all’interno dello stabilimento per lasciare il frutto della coltivazione nelle campagne di Meldola o Coccolia. Le barbabietole, dopo appositi trattamenti per il lavaggio, venivano lasciate in turbine e se ne estraeva il succo che sarebbe poi diventato zucchero. Per tutto questo lavoro servivano circa 800 operai e un centinaio di tecnici. La fabbrica, elegante, ariosa, coniugava la funzionalità ottimale per quel genere di lavorazione a dettagli estetici di tutto rispetto: il secolo successivo ci avrebbe abituato a monotoni parallelepipedi in cemento armato o prefabbricati atti a consumare e guastare il paesaggio. 

La barbabietola da zucchero si coltivava da queste parti fin dai primi anni dell’Ottocento ma più che altro era una coltura destinata al bestiame bovino. Solo pochi illuminati agronomi intuirono le possibilità del vegetale e la fabbrica le rese evidenti. La diffidenza, nei primi anni, era tanta: non sembrava mica tanto conveniente poiché obbligava i proprietari pure a un aggiornamento tecnologico. Tuttavia, ben presto la barbabietola soppiantò altre coltivazioni tipiche come la canapa e seguirono anni “dolci”. Dolci per modo di dire, perché se si va a curiosare tra la mordace stampa del tempo, oppure tra documenti di vario genere, si scopre di scioperi, lotte, manifestazioni e quanto avrebbe dato alla Forlì agraria – quasi immutata nei secoli – una spinta che nel bene e nel male la fece diventare una città industriale. La “città del Novecento” stravolgerà la Forlì di sempre: con un piccolo sfasamento di un lustro, sorse l’Eridania e furono abbattute le mura. Qui si formarono personaggi, e in particolare uno di cui ancora è un problema fare il nome, che segnarono le vicende dell’Italia. In effetti, gli anni successivi all’edificazione dello stabilimento sarebbero stati un frullatore: con una velocità impressionante la fabbrica dello zucchero avrebbe seguito le fortune di Forlì, dall’esaltazione alla depressione. Adesso si attende il recupero della struttura, cioè la sua messa in sicurezza e la sua conservazione. Negli anni Novanta, quando parve cosa giusta radere al suolo ruderi ingombranti dei fasti industriali (la vicina Forlanini e buona parte dell’Orsi Mangelli, per restare da quelle parti), si pensò di mettere mano all’Eridania vedendoci “una grande struttura socio assistenziale per anziani” con servizi resi “in regime residenziale e/o semiresidenziale”. Detto così può anche suonare bene, ma ciò avrebbe comportato la totale demolizione della struttura originaria. Non se ne fece nulla, sperando che progetti distruttivi rimangano accantonati per sempre. 

Ancora nel 1916 si legge di un problema serio, ne fa cenno Filippo Guarini nel suo “Diario forlivese” (12 marzo): “esiste un vivo contrasto per le barbabietole”. Infatti: “La Società Eridania non vuol pagarle oltre L. 2.80 al quintale; la società dei Bieticultori oppugna tale prezzo come inadeguato e insufficiente in rapporto alle attuali condizioni dell'agricoltura, e in virtù del decreto luogotenenziale procederà alla disdetta del contratto triennale. Il Prefetto si è messo in mezzo, per vedere di evitare il danno che manchi anche quest'anno questa coltura, che dà lavoro a tanti operai, ma finora inutilmente”.

Anche questo è solo un esempio, una delle numerose citazioni storiche della fabbrica dello zucchero che ha attraversato la vita e il lavoro di una città. Città che ai primi del Novecento non era affatto remissiva, ma una fucina giornali, di politica, di lavoro, di macchine, di idee. A mano a mano che le ciminiere si sono spente, questo spirito è venuto meno. A meno che oggi – finalmente – si voglia invertire la rotta. 

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