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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Le tracce del ponte scomparso

Montone in secca, riaffiora la storia: il Rupte, la memoria di un passaggio innominato

Il nome, di per sé, è insignificante. Ancor di più se pare che il povero “Ponte Rupte” abbia saputo schivare la storia di Forlì per poi finire sott'acqua. Con la scarsità liquida portata dal Montone in questi giorni lo si vede affiorare, almeno in qualche troncone dove è evidente che si tratta di un manufatto grazie ai mattoni sistemati con pazienza da anonimi muratori di chissà quanto tempo fa. Sì, perché percorrendo la passeggiata che da Porta Schiavonia, costeggiando il fiume, si dirige verso il Parco Urbano, si nota, in corrispondenza dello sbocco di via Battuti Verdi su viale Salinatore, il relitto in cotto di qualcosa di molto remoto. 

Pare che quanto si veda grazie al gran secco sia l'avanzo del Ponte Rupte. La denominazione in lingua antica fa capire che è rimasto lì, in quel tempo. Nessuno, oggi, si sognerebbe di parlare di Ponte Sclavanie, per esempio. Ponte Rupte sarebbe “Ponte della Rotta”, e anche questo nome non è che dica molto. Non diceva molto neppure a Sigismondo Marchesi, cronista del Seicento forlivese che, in modo un po' pasticcione, prima parla di “Porta della Rotta” alla fine dell'attuale via Palazzola poi rettifica: “Secondo alla pag.39 nel far mentione del Portone della Rotta, gli hò accennato un luogo improprio verso settentrione; che veramente dovette essere trà mezzo dì, e ponente su le mura di Schiavonia, perchè trovo memoria, esser fuori di Forlì da quella parte un Borgo cognominato della Rotta”. Il cronista fu vittima di un toponimo non infrequente (come “Rotta”, frazione tra Carpinello e il ravennate) a Forlì e dintorni. Per non aggiungere confusione a confusione, si tolga dalla mente la “Porta della Rotta” (collocabile, sì, alla fine di via Palazzola) e si tenga il nome “Rotta”. 

Oggi, infatti, il passeggiatore attento si domanderà dove conducesse quel ponte e perché era lì. Dall'altra sponda fa ombra una fitta selva che non permette nemmeno d'immaginarsi che nasconda la via dei Molini, cioè i Romiti. Si ricordi che nei pressi (e se ne vedono i resti) c'era la Porta Liviese, Liviense o Valeriana, di origine antichissima “perché guidava a dirittura a Livia Castello”. Siamo in epoca antica e il Ponte c'era già: collegava il Castrum al Forum, cioè “Livia Castello” a “Livia Foro”, le due sponde del Montone, quella propriamente militare e quella mercantile e civile, l'attuale centro storico di Forlì. 

I documenti vergati dai notai del Duecento chiamavano quel luogo “Rupta”, posta nel plebato di Santa Croce (il Duomo) ed era considerata città, non campagna! Forse la Rupta godeva dei privilegi dell'antica Livia (Castello) ed era pertanto “exclave”, in seguito decaduta?
Viene descritto che la Rupta era attraversata da un asse viario importante (un percorso difforme della via Emilia? La strada per Firenze?), con una fornace, molte case: un sobborgo che però una manciata di secoli dopo sarà definito “extra civitatem”, cioè periferia. Difficile capire perché: c'entra qualcosa il corso del Montone, in quel tratto rimaneggiato nel secolo XI? Sembra quasi che abbia tagliato fuori un quartiere urbano così, all'improvviso. Si lavori di fantasia, e si pensi che l'unico collegamento, salvo due bracciate a nuoto, era quel ponte che prese il nome dalla Rotta, diventando Rupte in genitivo locativo tardoantico. Forse il nome – chissà – fa riferimento a frequenti esondazioni del Montone, tanto che si narra che in questo tratto il fiume avesse rotto quel po' di argine che c'era fino a far bagnare i piedi ai frati di San Girolamo (cioè San Biagio). 

La storia di Forlì fa di tutto per non menzionarlo: si sa molto più dei ponti del sottosuolo che del povero passaggio della Rotta. Eppure, guardandosi intorno, qualcosa di più inizia a capirsi: avanzi di torretta sotto un ristorante orientale, la fu “Torre dei Quadri” significava anche la presenza di un piccolo luogo di culto: la “Celletta del Giglio”. I ponti urbani avevano, nei pressi, un luogo di culto di riferimento: San Bernardo per il Ponte dei Morattini, San Guglielmo per il Ponte del Pane (anche il nome di queste chiese per molti è un mistero, ma se ne parlerà), e per il Ponte della Rotta? La Celletta del Giglio, appunto. Non certo un luogo di rilievo ma è vero che il Rupte era già obsoleto nel Medioevo. Però si nota, almeno prendendo a riferimento il Marchesi senza pretese che sia il migliore, che tal ponte rimane senza nome e solo apparentemente senza storia, a parte una caratteristica importante: è un ponte di pietra. Si pensi che il collega di Schiavonia fu costruito e ricostruito più volte, e, almeno fino al Seicento, preferibilmente in legno. Che quella pietra sia romana? Che denoti un passaggio molto più importante di quello di Schiavonia?

Difficile asserire con certezza che la vera via Emilia passasse dal Ponte della Rotta, però è da dire che oltre il Ponte di Schiavonia si spalancavano le paludi, o “Padulli”, come si nota in un toponimo. Senza aprire troppe parentesi sulla difficile questione dei corsi d'acqua di Forlì, vero è che lì c'era un'ansa, una specie di fiume morto, detta Brilleta. Un percorso molto antico del Montone, molto profondo, capace di deviare la via Emilia con una curva che ora si apprezza passando da via Consolare (l'antica via Emilia, appunto). Il rettilineo “a diga”, l'attuale viale Bologna, risale ai primi anni dell'Ottocento e ancora si vede che a sinistra, andando verso Faenza, ci sono profondità strane, ecco ciò che resta della Brilleta e di quel groviglio incerto di acque. 

Ora, se si vuole fare entrare nella storia il ponte misterioso, occorre cercare alla voce “Porta Liviense” o “Porta Valeriana”, cioè l'apertura delle mura alla fine di via Battuti Verdi, nei pressi della Torre dei Quadri, appunto dove sorgeva il Ponte Rupte. Vediamo qualche episodio che transitò da questo antico e silenzioso manufatto in pietra. 

Nel 572, da quel ponte passarono i forlivesi felici di aver vinto gli assedianti longobardi e per questo andarono in pellegrinaggio a San Varano per portare le reliquie di San Valeriano in Duomo. Questo è un episodio leggendario ormai poco conosciuto. Re Clefi dei Longobardi voleva far sua Forlì e la cinse d'assedio incutendo il terrore tra i nostri avi. Finché apparve correre sulle mura un cavaliere riccamente armato. Chi era? Nessuno ne aveva notizia. Poi, accanto al cavaliere misterioso eccone altri, a decine. I forlivesi erano convinti di non avere campioni dalle loro fila. Fu riconosciuto: era il defensor urbis, San Valeriano (soldato romano morto martire nei pressi di San Varano) che guidava i concittadini alla riscossa che effettivamente avvenne. 

Nel 1273, ai tempi di Giovanni Orgogliosi e Francesco Calboli, nel corso di un assedio di bolognesi, fu elaborata una strategia da Alloro II Ordelaffi: “Si ritirò egli medesimo con le sue genti Ghibelline alla Porta Valeriana con l'insegna della Croce bianca in campo rosso, uscendo verso il Borgo della Livia”. Altri capitani avrebbero fatto lo stesso dalle Porte di Schiavonia e di Santa Chiara, costringendo i bolognesi a un ritiro vergognoso. 

Le epiche vicende del Sanguinoso Mucchio parlano spesso, senza citarlo esplicitamente, del ponte: in quei pressi Guido Bonatti aveva un fondo chiamato Campo della Quercia che vide l'acquartieramento di Giovanni d'Appia, e la Porta Liviense o Valeriana rimase aperta per ingannare i francesi e poi soprenderli una volta entrati in Forlì. Negli stessi giorni del 1282, Guido da Montefeltro chiamò una squadra di fanti con targoni (ampli scudi), balestrieri, arcieri “e altre genti armate d'armi corte”, quattrocento cavalli. Mandò tutti fuori Porta Valeriana nella regione detta la Livia “con ordine che mai non entrassero a combattere quando anche havessero veduto lui rotto, e morto, ne si movessero di quel luogo, finché non havessero havuto un certo contrassegno secreto”. 

Scrivendo di Francesco Ordelaffi, Marchesi precisò che nel 1352 – in ottica difensiva - murò alcune porte, tra cui quella “in capo alla Strada de' Battuti Verdi”, detta “Liviese o di San Varano in Livia” la quale “per un bel Ponte di Pietra passava il vicinissimo Montone, e distendeva per un Sobborgo la Città fin à S. Varano”. Nel 1356. il sempre bellicoso Francesco II fece guastare “il ponte di pietra, che à Porta Valeriana univa con la Città la riva del fiume Montone”. 

Alla fine del Quattrocento, però, si sa di lavori idraulici voluti da Caterina Sforza. Per due mesi gli operai lavorarono a un nuovo fossato per il fiume, forse il tratto tra la Torre dei Quadri e la Porta di Schiavonia. Dando retta a questa fonte, il Ponte rimarrebbe tutt'ora interrato e ciò che resta visibile è la struttura in cotto che emerge nella siccità?

Ma si va oltre il Medioevo: nel 1515, in un periodo burrascoso di liti familiari, si cita Girolamo Morattini, capo dei guelfi che con i suoi si stava recando a Faenza (dove c'era da far rissa con una selezione di ghibellini) uscendo “dalla Città per la Porta della Torre de' Quadri”. Quindi passarono sul vecchio Ponte Rupte. Ed è curioso che ancora fosse quello il passaggio migliore per la via Emilia. O forse c'era rimasto un guado? O forse passarono costeggiando le mura per poi attraversare il fiume al Ponte di Schiavonia? Molte domande, poche risposte. 

Comunque, la storia farà affondare quel che ne era rimasto. Le piante della città ben si guardano dal ritrarlo: Coronelli, nel 1694, dettaglia le tre arcate adesso sì in pietra del Ponte di Schiavonia mentre ignora completamente il Rupte, sicuramente a quel tempo reso un rudere a pelo d'acqua. Qualche decennio prima, la “Veduta prospettica della città di Forlì” fa ben vedere a volo d'uccello la struttura del Ponte di Schiavonia e non distante la chiesa degli eremiti (Romiti), nessuna ricognizione per il povero Ponte Rupte se non l'evidenza di una specie di restringimento del fiume in corrispondenza di una chiesina addossata alle mura (la Celletta del Giglio). 

Resta comunque curioso il fatto che il passaggio sul Montone da quel lato della città sia rimasto al passato, concentrando tutto sul ponte di Schiavonia. Eppure, quando nel 1905 si concretizzò l'idea ottusa di eliminare le mura, si sarebbe potuto cogliere l'occasione di ricostruire il ponte, decongestionando il traffico e ripristinando un passaggio non proprio secondario. Infatti, in quegli anni passò da quelle parti con scrupolosa attenzione il sempre puntuale Antonio Santarelli, il primo a farsi due domande in più su questo ponte: sicuramente i suoi occhi lo vedevano diversamente da com'è ora, con dettagli o parti perduti nel corso di lavori di pulizie dell'argine dei decenni successivi. Nemmeno allora, nonostante lo smontaggio certosino e arraffone di mattoni quattrocenteschi (quel lato di mura si sarebbe potuto lasciare integro visto che di là c'è il fiume), venne in mente che questo era il ponte per Firenze mentre quello di Schiavonia per Bologna. Oggi, nella smemorata Forlì, potrà un'indicazione, una valorizzazione, ricordare a chi cammina l'importanza di quel ponte silenzioso?

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