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Il Foro di Livio

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A cura di Umberto Pasqui

Forlì, che morìa

Che succedeva quando si diffondevano le malattie nel Quattrocento? Un breve ritratto della vita dei forlivesi durante le epidemie antiche

Continuate a dire che Forlì è un mortorio? Ma l'avete vista nel 1448? Che cosa successe, perché la città era più silente del solito e pressoché svuotata? Erano anni dalla vita breve e intensa: chi riusciva a sfuggire alla mortalità infantile, a tornare incolume dalle guerre e anche dalla politica sanguigna e violenta, aveva comunque un'aspettativa di vita ben ridotta secondo i canoni odierni. Si riportano malattie da nomi approssimativi come il “male del canale”, il “male chativo”, il “male del petto”, la febbre quartana, la gotta, il “catarro”; molti medici e poca medicina. La scarsa igiene faceva una buona selezione, del resto, che lusso morire nel proprio letto per “cause naturali”. E poi c'erano le epidemie.

Cosa succedeva nella Forlì del Quattrocento quando si diffondeva un'epidemia? Occorre distinguere tra epidemia influenzale che passava puntuale colpendo pressoché tutti con febbre e tosse senza far troppe vittime, e la vera e propria morìa, causata da un bacillo: la peste. Lungi dall'inoltrarsi in pericolose suggestioni del contemporaneo, la soluzione era sostanzialmente una: chi se lo poteva permettere se ne andava in campagna. La cura migliore, per evitare di finire compromessi con la morìa, era appunto quella dell'aria buona. Per esempio: nell'estate del 1448 arrivò la peste. La città si svuotò non tanto a causa della signora con la falce, ma proprio perché se n'erano andati tutti nel contado. Il signore regnante, Antonio Ordelaffi, preferì sfollare i figli a Forlimpopoli mentre lui rimaneva eroicamente a Forlì dove però incontrò la morte. Nel 1425 un altro signore Ordelaffi aveva perso la vita a causa della peste: il povero Tebaldo, un giovinetto.
Nel 1457, Cecco e Pino i due figlioli di Antonio (quelli che si erano salvati dal morbo nella città artusiana) tenevano le redini di Forlì. Alla prima avvisaglia dell'ennesima morìa, si rinserrarono nei castelli lungo il Rabbi ordinando altresì una “cintura” di protezione passante da San Lorenzo in Noceto. Insomma, ai forlivesi non fu più consentito uscire dallo sbarramento sanitario per evitare di portare il male altrove. I francescani, nel frattempo, gestivano a pieno ritmo l'ospedale principale della città, la Casa di Dio matrice di tutti i Casadei, in uso con alterne fortune da almeno il 1424 e in seguito amministrato dal Comune. Luoghi di cura erano anche annessi ai monasteri o nei piccoli ospizi dei Battuti, più che altro ostelli o ricoveri.

I forlivesi costretti nella minaccia malsana si rivolgevano in particolare a San Rocco e a San Sebastiano, protettori tradizionali contro la peste cui poi si sarebbe aggiunta la Madonna del Fuoco.
Vero è che il “segno” (così talora era chiamata la peste) a volte colpiva senza uccidere, regalando il mezzo gaudio di avere i sufficienti anticorpi per affrontare l'ondata successiva.
C'era comunque chi riusciva a raggiungere i dintorni e tra le mete preferite spiccano Bertinoro, Fiumana, Rocca d'Elmici, Predappio. Chi aveva parenti in collina era ovviamente avvantaggiato, chi aveva un castello ancora meglio. Ci si accontentava pure di un capanno, un fienile, purché lontano da Forlì che, appunto, a causa della morìa si trasformava in un mortorio. Fu così che in città il magnate Orlandino Amaduccio, in quel 1457, forse stanco di vivere in un perpetuo “stato d'emergenza” per la peste, in una notte di maggio si buttò nel pozzo. In effetti, nel Quattrocento forlivese, su cinquant'anni erano almeno dodici quelli di morìa. La colpa, secondo le voci che attecchivano tra i più umili, poteva essere data di volta in volta ai fattori più inverosimili, la “cometa di Halley”, o ci andavano di mezzo supposti “untori” come forse il caso sospetto di un certo Cola, ragazzo accusato di non si sa cosa e morto in seguito alle ferite riportate per la tortura proprio nei momenti più feroci di una violenta pestilenza. Passata la tempesta ancora con la terra smossa nei cimiteri delle chiese urbane, si viveva con rassegnazione l'attesa dell'ondata successiva, pensando ai vivi.
 

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