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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Forlì e la “liccia” di Carnevale

Calma piatta per le strade forlivesi nei giorni grassi del festoso settecento. A parte la corsa di cavalieri in piazza e "conversazioni"

Torna il Carnevale in piazza benché ormai non desti clamore il fatto che non di rado venga festeggiato in Quaresima. A parte la piacevole sorpresa, sembra però che la tradizione, almeno nel costume dei più, stia cadendo in disuso. Se è difficile addentrarsi nelle consuetudini abbandonate resta possibile almeno percepire (anche solo nei termini, nel parlato) qualcosa al riguardo del primo Settecento, secolo che per evidenti riferimenti alla commedia dell’arte di solito è facile associare alla “settimana grassa”, qua detta “lova”. Si sfogli, dunque, un quaderno manoscritto da un esponente della nobile famiglia dall’Aste Brandolini (documento conservato nell’omonimo fondo presso l’Archivio di Stato) e si indaghi sulla Forlì di quel tempo. Una Forlì non certo popolare (la cronaca è vergata da un punto di vista altolocato) ma parimenti salace e sarcastica, che lascia trasparire una lettura del presente colta ma non distaccata. 

Le informazioni che si ricavano sono difficili da comprendere per l’esperienza dell’oggi. Un tratto comune pare essere la “liccia”: i forlivesi del Settecento vedevano, verso la fine di gennaio, spuntare una palizzata (altrimenti detta lizza) entro la quale - cioè in un'arena provvisoria - si esibivano cavalieri in competizioni ludiche e giochi per allietare il periodo di festa. Così nel 1717 “si piantò la liccia” il 14 gennaio, e dal “giorno di Sant’Antonio Abate”, cioè il 17, “principiarono a correre” il cavalier Morattini, Paolo Monsignani, Pietro Paolo dall’Aste, Antonio Serughi e Pio Zaffi (famiglia che più tardi preferirà sostituire con una esse la prima lettera del proprio cognome). Costoro “per tutto il Carnevale proseguivano a dare un grande divertimento”. Non si pensi però a clamorose esibizioni, Forlì è sempre Forlì e la festa è per gran signori all’interno dei palazzi. In giro, poca roba: il 19 gennaio “si pubblicò il bando delle maschere, delle quali pochissime se ne viddero in tutto il corso del carnevale, conforme al solito”. E così il 28 “si mise in scena sul pubblico Teatro un’opera eroica” intitolata “La Forza della Virtù”, dove si distinsero “bravissimi musici” come già era accaduto “nella Città di Bologna” con “tanto applauso”. Il giorno 30 “si rappresentò un’altra burletta” intitolata “Don Pasquale dalle tre mogli” che però “riuscì con mediocre applauso”. Cadde la neve nella notte dell’1 febbraio “ma sì legermente che il giorno appresso sul’hora di pranzo non se ne vidde vestiggia”. Poi fu il tempo, il 9 febbraio, del “martedì lovo” quando “terminò il bon tempo che era durato assai et il Carnevale”, mentre “la notte del medemo giorno nevicò a coperta di scarpe come pur fece il venerdì prossimo”. 

Del Carnevale del 1718 si sa che “si fecero molte conversazioni pubbliche” e “da giuoco, da ballo”: e qui Forlì si distinse perché nelle altre città si “sospendevano i pubblici bandi” in quanto “vietarono  dette feste da ballo a qualunque grado di persone”. Per il 1719 si fa cenno a un episodio non chiaro, una “ridicola passeggiata” registrata nel giorno della Madonna del Fuoco, quando “tutti i staffieri del marchese Albicini” si videro marciare “a due a due in numero di dieci col cameriere avanti”. Costoro “girarono le loggie della piazza quando ben erano piene di popolo” che ricambiò con “stupore per una sì rara e ridicola ostentazione”. Il 6 febbraio, invece, “si mise in pubblico la maschera” e i marchesi Paolucci “fecero a gara per essere i primi”. Il giorno dopo “si piantò la liccia” e “corsero per tutto lo spazio del Carnevale” i soliti Paolo Monsignani, Morattini, Pio Zaffi, Antonio Morattini. Inoltre “si diede principio ad un pubblico lotto” le cui estrazioni durarono “per tutto Carnevale” con l’assistenza di “due deputati della Città”. Domenica 12 febbraio “in casa Gaddi”, viene ricevuta una nobile famiglia di Pesaro, i conti di Sant’Angelo, nota per “grande bontà e maniera”, è l’occasione per “una bellissima conversazione e festa da ballo”. Il giorno successivo “in casa Paolucci” è previsto un “trebbio”, e martedì in casa Savorelli “una Comedia di Pupazzi”, altresì l’indomani in casa Orsi un “trebbio” e una “festa da ballo” in cui “concorsero tutte le Dame, e Cavaglieri in queste conversazioni copiose altresì di rinfreschi” benché vi fosse una “mancanza di ghiaccio e neve” che “non permetteva il refrigerio” di alcuni alimenti deperibili. Con questo “terminò il Carnevale” con “una quiete universale”, senza “sconcerto alcuno” e “si entrò nella nuova quaresima con un tempo assai bello”. 

Nel 1720 viene registrato, alla “domenica ultima di Carnevale”, un “generale invito di tutte le Dame” perché una rampolla Albicini “doveva vestire l’abito religioso”. Fu quindi allestito un “copioso rinfresco” che ebbe termine all’ora di “portarsi al monastero”. La ragazza fu scortata fino a Santa Chiara da “ventotto carrozze” ed esse erano “parte ripiene di Dame e parte di Cavaglieri”. Tuttavia, si scrive pure che “gli ultimi tre giorni di Carnevale” furono “assai sciapi” per il “cattivo tempo”: “neve al monte con freddo al piano”. Ciò rese deserta la “lizza”: “sul più bello”, infatti, finirono per essere “raffreddati li cavaglieri giostranti di già poco caldi dal principio” tanto che “lasciarono affatto di correre”. Il risultato? Un mortorio: “si passò dal Carnevale alla Quaresima senza pena”, nessuno si accorse di “haver fatto cambio da giorni di divertimento in quelli di penitenza”. 

Ancor peggiore fu il 1721. Infatti, era entrata in vigore la “proibizione di Roma” tale da “non permettere che in alcun modo recitassero o cantassero donne, o con maschera o senza maschera, su i publici Teatri, e su le pubbliche piazze”. Il cronista imputa questa restrizione a “qualche nuovo zelante bachettone” definito anche “maligno ipocrita”, giusto per far capire la sua opinione in merito. A cascata, fu “sospesa la maschera” e “proibita la recita ad una compagnia di musici animata già a Faenza”. Con queste premesse non che ci fossero grandi aspettative. Il Carnevale di quell’anno (“uguale a questo non si è mai veduto”) registrò la totale assenza di “maschere per la città”, né “unione di carrozze sul corso, né ridotti di Dame”. Nelle “conversazioni o pubbliche o private” niente “leciti divertimenti” tanto che Forlì sembrò “non una città che viva al secolo” ma “un chiostro di certosini”. Insomma, l’unica differenza tra carnevale e quaresima fu “nella mutazione dei cibi”. 

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