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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

I ponti del sottosuolo

Scavando in certi punti del centro di Forlì possono affiorare arcate in mattoni ampie e antiche. Sono ponti. Come sono finiti sotto terra?

Nessun vivente ha impresso negli occhi la Forlì d’acqua, quella dei ponti urbani. All’interno del centro storico c’era un numero imprecisato di attraversamenti dei canali. Si è già scritto, si è già detto, ma è sempre bene ricordarlo. La domanda che potrebbe sorgere a chi ha a cuore ciò che resta delle vestigia delle città è la seguente: in che modo si potrebbe valorizzare il sottosuolo della città? 

Sulla via liquida che entrava in centro si può dire che il suo percorso era simile a una lettera "h" minuscola, dove l'asta verticale era, fino a mille anni fa, il fiume Montone poi canalizzato, e quella curva, il Rabbi, ridotto come l'analogo e rimasto a cielo aperto in più tratti fino alla metà del Novecento. Ora bisogna cercarlo dietro il Teatro San Luigi. L'acca d'acqua era solcata da ponti, attraversamenti di legno, ponticelli (come quelli che si vedevano fino agli anni '30 in via del Sole, cioè via Pedriali), conferendo al centro storico un tocco pittoresco perduto per sempre; l'esasperazione dei miasmi dei canali malcurati ha visto, come soluzione, il loro nascondimento, privando così la città di una sua caratteristica antica, facendola sprofondare nelle viscere urbane. La storia ha reso obsoleto questi passaggi e quelli che scamparono all'abbattimento si salvarono sotto terra.

Ora è difficile perfino immaginare la serie di ponti che raggiungono piazza Saffi, o l'arco a schiena d'asino che s'innalzava a metà di corso Garibaldi. Di tanto in tanto, però, tenendo a mente il percorso dei canali, si nota che le strade del centro a volte sembrino accennare un lieve dosso, una gobba poco accentuata ma percettibile. 

Dei tanti ponti (i più in semplice legno) del centro di Forlì, resta il nome di almeno cinque che ancora esistono ma non si vedono. È opportuno fare un ripasso.

Fino alla metà dell'Ottocento chi avesse percorso l'attuale corso Garibaldi, arrivato, da Porta Schiavonia, alla strettoia che sterza verso piazza Melozzo (dove si trova la chiesa della Trinità), sarebbe salito lungo un ponte a schiena d'asino sotto il quale un rigagnolo spesso in secca o maleodorante scorreva, relitto di un fiume che fu. Era simile al Ponte della Maestà di Portico di Romagna. Si sollevava di sedici metri e ciò fa intendere quanto importante fosse il corso d'acqua ora invisibile. Allora era detto Ponte dei Bogheri (termine che intende, come “boa”, qualcosa che ha a che fare col gergo marinaresco), e ciò potrebbe essere una prova che il fiume urbano fosse navigabile. Era chiamato anche Ponte dei Brighieri ma forse è più noto il nome di Ponte dei Morattini, mutuato dalla potente famiglia forlivese. Famoso per essere il luogo del delitto di Giacomo Feo, secondo marito di Caterina Sforza, da solenne ingresso nel cuore della città, simbolo dell'ira coniugale della Tigre di Forlì, divenne un impiccio stradale e, abbandonato all'incuria, fu capitozzato e il piano stradale poté essere orizzontale. Dopo lungo silenzio è tornato a far parlare di sé nel giugno del 1997, quando riapparve la parte orientale del ponte, ormai completamente interrata, visibile da una finestrella (non eccessivamente segnalata né valorizzata) sul marciapiede dal lato opposto alla chiesa della Trinità. Si nota una struttura in laterizio con grossi blocchi di arenaria nella sezione dell'arcata. Più avanti è stata trovata l'altra sezione, la spalla occidentale. Il tracciato della curva in quel punto (prima e dopo, il corso è un rettilineo), segue in buona sostanza il percorso del ponte. Il 13 ottobre 1384 un'alluvione ruppe le arcate, sommergendo le case circostanti. Secondo quanto riferisce lo storico secentesco Marchesi, durante una delle frequenti liti tra guelfi e ghibellini, nel 1515, sul Ponte stettero quattrocento persone per tre giorni. Dato che, al netto degli arrotondamenti del cronista, fa capire quanto fosse importante. Un solo arco, simmetrico e perfetto, a tutto sesto, in cotto e con inserzioni di marmo: di fondazione romana, era il più antico ponte forlivese. Fu smantellato perché ormai sotto non scorreva più un fiume (quindi lo sbalzo di sedici metri era iperbolico) ma un canale non proprio limpido. Nell'agosto del 1850 iniziò il suo abbassamento anche per rendere la strada più agevole e meno pericolosa: scendere, nei mesi invernali col ghiaccio, la ripida schiena d'asino, aveva causato numerosi incidenti. Nell'Ottocento, la parte sottostante l'arco, era una cantina di un privato. Con buona pace degli storici e dei romantici, rimase solo il basamento, a via a via interrato come il canale stesso. 

Un fiume entrava in città anche da porta Ravaldino (più o meno sul tracciato dell'ormai invisibile canale) e bagnava il Campo dell'Abate (piazza Saffi). Sopra di esso oggi c'è il loggiato del Municipio. La pendenza di piazza XC Pacifici testimonia l'antico argine. Si conosce il Ponte del Pane, un passaggio di circa venticinque metri a tre arcate bicolori (in mattone e in spungone), con sopra le botteghe dei fornai. Si tratta anch'esso di una struttura di fondazione romana, una via di ingresso o di uscita dalla città. Ricostruito più volte, la sua forma definitiva doveva risalire al Duecento, su iniziativa del Podestà Guarino da San Vitale. Sotto di esso scorreva l'Acquaviva, cioè il Rabbi, poi canalizzato. Se oggi fosse ancora sul livello stradale, il Rialto piazza sarebbe rialzato e si vedrebbe una struttura con un ampio foro di deflusso sul pilone centrale, non particolarmente elegante ma molto caratteristico anche per l'intensa vita mercantile che gli diede il nome. Luogo frequentatissimo per il gran numero di botteghe (la storia ci ha consegnato il nome di quella di Morello e di Castellinis, artigiani) fu anche il cuore di disordini. Nell'effimero periodo Borgia è chiaro il suo legame con il Palazzo Ducale (il Municipio) e a poco a poco cadde in obsolescenza e in parte fu incorporato dal palazzo del Comune. Nel 1861 il Consiglio comunale deliberò di abbassare il Rialto Piazza danneggiando così il Ponte. Scomparve anch'esso sotto terra, ora un disco sulla pavimentazione all'intersecazione tra corso Diaz e corso Garibaldi ricorda che si sta camminando sopra l'antica struttura. 

Sempre a scavalco dell'Acquaviva, nel principio di via delle Torri, si alzava il Ponte dei Cavalieri, composto da due arcate di oltre otto metri di luce ciascuna. Nonostante la storia particolarmente invasiva, rimane ben conservato, benché sotterraneo. Le cime degli archi furono spuntate nell'800 per eliminare il dosso stradale, come avvenne per il Ponte del Pane. La struttura, lunga 23 metri, larga circa sette metri e alta nove, è in laterizio e spungone a due arcate a tutto sesto. Il pilastro centrale è massiccio e rostrato. L'arco orientale corrisponde alla parte finale del loggiato comunale. Nel Duecento era chiamato Ponte San Mercuriale mentre è molto probabile la sua fondazione romana come Pons Militum. Sopravvisse a lungo in quanto tratto iniziale di via delle Torri, noto come Cantone del Gallo o, anticamente Cantone de' Nomagli, dove si estendevano le Case Numai, fatte sparire per la costruzione del Palazzo degli Uffici Statali. Gli scavi del 1998 hanno confermato la sua localizzazione. Già nel 1934, durante i lavori di demolizione dell'isolato per far posto all'edificio razionalista, fu vista e fotografata la fiancata settentrionale del Ponte. Nel 1998, durante uno dei tanti lavori che hanno interessato l’area adiacente gli Uffici Statali, per qualche mese si sondò il sottosuolo “accarezzando” l’antica struttura o ciò che ne rimane. 

Tra il Ponte del Pane e il Ponte dei Cavalieri c'era il Ponte Buio, corrispondente al loggiato del Comune.

Meno noto è il Ponte degli Scotti (in foto), tra via Biondini e via Pedriali, già via del Sole. Appare come una struttura modesta, forse non è stato rivelato del tutto. Rimane un unico arco in laterizio largo quattro metri ritrovato e fotografato nel 1934 duranti gli sventramenti del Ventennio. Forse questi lavori hanno distrutto l'arcata che per così poco tempo era riaffiorata alla vista dei forlivesi.

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