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Il Foro di Livio

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A cura di Umberto Pasqui

I segreti di Sante e Fabrino

L'alluvione del 1431 fece entrare nella storia due giovani forlivesi. Sante e Fabrino, non si sa bene come, risolsero un problema enorme per la città.

Uno dei compiti che l’estate, nelle sue ore afose e dilatate, potrebbe portarci è capire meglio perché si chiama così la strada in cui abitiamo. A questo scopo è utile la sezione odonomastica del sito del Comune. Almeno un caso (tra i tanti), però, merita un approfondimento. In località San Martino in Strada, nel 1980, viene dato nome “via Sante e Fabrino” a una strada senza uscita. Forse qualcuno si è chiesto chi mai fossero costoro. Il sito succitato così spiega: Dopo l'alluvione del 1431, fra difficoltà e sfiducia, Sante e Fabrino si impegnarono a far rifluire l'acqua nel canale di Ravaldino dalla chiusa di S. Martino. Per saperne di più occorre coinvolgere i cronisti quattrocenteschi. 

Nella storia di Forlì ci si imbatte di tanto in tanto in qualche alluvione, specialmente nei mesi autunnali, come quella del 22 settembre 1521 quando catinate di piogge per oltre due settimane causarono lo straripamento del Montone. Forlì si trovò ad essere Venezia, l'acqua entrò in città trascinando le case di legno, abbattendo bestiame e addirittura mulini. Una quarantina, forse, le vittime, specialmente donne e bambini. 

Nel Quattrocento a San Martino c’era una chiusa importantissima, da essa dipendeva l’economia e l’energia della città. Infatti, in un sistema basato sui canali, regolare il flusso delle acque era di vitale importanza per il tessuto urbano. La chiusa, più avanti, sarà trasferita a monte, nei pressi di San Lorenzo. Quella attuale è detta di Calanco: una specie di diga sul fiume Rabbi innalza l'acqua che così in parte viene intercettata per alimentare, attraverso un piano inclinato, il canale che così inizia il suo percorso che avrà termine a Coccolia. Gli storici hanno trasmesso di una pioggia ininterrotta per due mesi, tanto che i fiumi dell’Italia settentrionale (anche quelli romagnoli) erano fuori controllo. Si ricordi che gli argini, a quel tempo, erano molto approssimativi. L’acqua aveva colmato i campi: un macello. L’ottobre del 1431 significò pertanto un cataclisma incredibile: la vendemmia persa nel fango, botteghe spazzate vie, le barche che avevano preso il posto dei carretti. La preoccupazione più grossa per Forlì, però, riguardava, appunto, il sistema di chiuse da cui tanto dipendeva la sussistenza della città. L’alluvione era stata così violenta che aveva compromesso il sistema idraulico e i canali urbani erano rimasti a secco. Oltre al danno della pioggia sovrabbondante, la beffa di rimanere senz’acqua. Le ruote dei mulini erano ferme, con tutte le conseguenze del caso. Un problema che a breve, con l’arrivo dei primi rigori, si sarebbe tradotto in carestia. Forlì non poteva permettersi una disgrazia simile. Fu indetto un bando per risolvere la questione: i canali di Ravaldino e di Schiavonia erano ormai un solco con qualche pozzanghera limacciosa. Un po’ come avviene ora, in grande considerazione era tenuta la spesa, ma anche il tempo di realizzazione (occorreva fare presto). 

In un primo momento venne coinvolto un Maestro d’ascia, tale Gha (Guglielmo) che si portava dietro la diceria di menagramo. Per evitare altri commenti poco simpatici, ricusò l’incarico. Così si fecero avanti due giovani: uno di Forlì città, l’altro di San Martino in Strada. Il primo si chiamava Fabrino, il secondo Sante di Magello. Gli ingegneri più esperti ritenevano una missione impossibile ridare acqua alla città in quelle condizioni. Quando poi si proposero i due ragazzi, furono accolti da un clima di sfiducia generale. Nessuno credeva nelle loro capacità ma la disperazione era tale da far dire: “Perché no?”, ovvero “Lasciamoli provare”. Anche se sicuramente qualcuno sorrideva o ghignava alle loro spalle; loro due, orgogliosi, ben poco se ne curavano. Fu accordata una specie di obbligazione di mezzi con compenso di 620 lire (chiunque pensava che erano soldi buttati, ci si aspettava tutt’al più il ripristino di almeno un minimo flusso d’acqua). Non solo, a Sante e Fabrino avrebbero goduto di un canone di cento lire l’anno per dieci anni per la manutenzione.

I due iniziarono i lavori l’8 novembre (pioveva, tanto per cambiare) senza però vedere grossi risultati. Nella notte di venerdì 14 dicembre, però, i forlivesi avvertirono lo sciabordio dell’acqua tornare in città: quei due, in un modo o in un altro, c’erano riusciti. Non si sa come riuscirono a convogliare l’acqua nei canali, questo rimane un segreto. Che sia voluto per pudore “industriale” o per omissione degli storici è esso stesso un punto oscuro. In ogni modo, non sappiamo come riuscirono, sappiamo che riuscirono. I due giovani geniali furono riempiti di complimenti da tutti i forlivesi. I percorsi urbani d'acqua sono stati protagonisti di piccoli e grandi fatti che hanno accompagnato la storia della città per novecento anni. Magari un giorno si troveranno coraggio e risorse per scoprire alcuni tratti in centro storico, dopo gli opportuni lavori per renderli salubri e sicuri.

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