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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Il Cardinale sepolto due volte

Cristoforo Numai, grande forlivese del Cinquecento: la sua carriera sfolgorante e l’oltraggio subito durante il Sacco di Roma

Il 22 marzo 1519 giunse una celebrità che aveva avuto i natali da queste parti. Sebastiano Menzocchi, nella sua Cronaca, annoterà l’evento con le righe seguenti: “Il Cardinale Cristoforo Numai d’Araceli frate zoccolante venne di Franza et fermò a Forlì sua Patria per 3 giorni, cantò la messa in Santa Croce, poi sen vo a Roma con gran contento della Città”. Se ora questo nome pare quello di un qualsiasi carneade, seppure il cognome lo connetta alla storia locale, nel suo secolo era un esempio di “forlivese che ce l’ha fatta”. Era un esponente dei Numai, potente famiglia ghibellina le cui case si trovavano per lo più dall'omonima torre fino al Cantone del Gallo, nell’isolato sacrificato a metà degli anni Trenta del Novecento per la costruzione del Palazzo degli Uffici Statali. 

Ora, queste lande storiche sono complesse e molto si darà per scontato, come per esempio i conflitti per la supremazia in Europa tra Carlo V d’Asburgo e Francesco I di Valois (queste due fazioni, a Forlì si chiameranno rispettivamente “ghibellini” e “guelfi”). Si farà cenno al Sacco di Roma del 1527 e alla divisione tutta francescana tra Osservanti e Conventuali. Eppure per questi macchinosi movimenti delle vicende mondiali si può porre come sintesi un nome: il nostro Cristoforo Numai, frate cardinale, forlivese internazionale, ghibellino ma anche un po’ guelfo. 

Per parte materna, era innestato in un’altra inclita schiatta, quella degli Hercolani. Seguì proprio il desiderio della mamma Cassandra entrando nell’Ordine dei Minori Osservanti prima nel convento di San Girolamo (San Biagio, a Forlì), quindi a Bologna. Qui ebbe modo di farsi notare per la facondia, l’ingegno brillante e si distinse ben presto come famoso predicatore. Perfezionò gli studi a Parigi, alla Sorbona conseguì il dottorato in teologia, disciplina di cui divenne maestro. Entrò nelle grazie dei reali di Francia: fu confessore della regina Luisa di Savoia per poi diventare educatore del giovane Francesco I, orfano di padre fin dall’età di due anni. Probabilmente fu confessore anche della Regina Claudia (sì, quella delle susine), moglie di Francesco I di cui sarà, tra l’altro, consigliere.  Come abbia potuto conciliare la sua origine legata alla fazione filoimperiale (ghibellina) con la fedeltà alla casa reale francese resta un mistero, ma ne fu capace tanto da far spazientire Francesco Guicciardini, presidente di Romagna, che espresse più volte su di lui il giudizio che pensasse più che altro a proteggere parenti e cose sue nonché la parte ghibellina di Romagna. 

Tra altri incarichi prestigiosi si deve citare quello di ministro generale prima dei soli Osservanti, poi dell’intero Ordine francescano: nel 1517 gli fu consegnato da papa Leone X l’antico sigillo usato sin dal tempo di San Francesco. Poco più tardi, lo stesso Pontefice lo nominò Cardinale col titolo di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, quindi di Santa Maria in Aracoeli. Dalla sua posizione privilegiata si dedicò anche a dar lustro a Forlì, per esempio fu evidente il suo interessamento presso papa Clemente VII a favore della beatificazione di Giacomo Salomoni, domenicano veneziano che compì la parte più rilevante del suo apostolato nel convento sull’odierna piazza Guido da Montefeltro. In seguito fu scelto quale vescovo di Alatri e commissario pontificio per la predicazione dell’indulgenza per la basilica di San Pietro. Fu pure vescovo di Riez, piccola località provenzale, e amministratore apostolico di Isernia. A lui si rivolse Enrico VIII che da Londra voleva conoscere un parere autorevole in merito alle sue vicende matrimonali. In due conclavi venne fatto il nome del cardinale di Forlì come papabile: ricevette rispettivamente otto e ventidue voti. 

E poi – maggio 1527 - ecco i fatti del Sacco di Roma. Il cardinale Numai soffriva di gotta e si sentiva al sicuro nel suo palazzo (difeso idealmente dal blasone ghibellino). Altri prelati, nel frattempo, si erano rifugiati col Papa a Castel Sant’Angelo; il forlivese, volente o nolente, non poté raggiungerli. Così un’orda di lanzichenecchi irruppe in casa sua e, non trovando niente da rubare, maltrattò pesantemente il vecchio porporato fino a costringerlo a un’umiliazione disumana. Le cronache  raccontano di una masnada di tedeschi luterani che lo afferrò e lo mise a forza in una bara (da vivo), facendolo così girare per le strade di Roma, intonando per sfregio la sequenza delle esequie. Giunti nella basilica di Santa Maria in Aracoeli gli fu cantata un’orazione funebre fittizia e venne collocato in quella che sarebbe stata la sua tomba promettendone la liberazione in forza di un riscatto. Costoro poi tornarono nella casa del Cardinale per gozzovigliare tra vino – anche consacrato - in calici liturgici e pissidi d’oro. Dal momento però che la cifra ottenuta fu ritenuta insufficiente, lo tolsero dalla tomba e lo costrinsero a salire sui propri cavalli onde mendicare soldi sulla soglia delle abitazioni dei suoi amici. Si rivelò risolutivo l'intervento di un altro forlivese e di lui parente, Cesare Hercolani, e Numai venne salvato. 

Di lì a qualche mese, distrutto dalle umiliazioni subite, sarebbe morto il 23 marzo 1528 a poco meno di ottant’anni. Ne “I lustri antichi e moderni della Città di Forlì” (1757), così si legge: “Soffrì con somma rassegnazione a Divini voleri indicibili oltraggi e venne anche posto in arresto; ma, finalmente liberato da tante angustie, e ritirato in Ancona per dare qualche ristoro all’abbattute sue forze, giunse agli eterni riposi. Il di lui corpo imbalsamato, e portato a Roma, fu posto a giacere nella chiesa sua titolare” (cioè la basilica di Santa Maria in Aracoeli). Il Sacco, tra le altre sconcezze, fece disperdere gli scritti del Cardinale; quel po’ che è rimasto (dunque materiale assai prezioso) è nella sua Forlì, conservato nel Fondo Piancastelli. 
 

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