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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Il giallo della tomba di Melozzo

Cosa rimane del pictor papalis nella sua città? Probabilmente, solo le ossa. Ci sono ancora? Se sì, dove potrebbero essere?

Un giallo datato 1938 riguarda le spoglie mortali del pictor papalis. Melozzo da Forlì morì l’8 novembre 1494, presumibilmente nel suo rione d’origine, dedicato a Sant’Antonio per la chiesa di Sant’Antonio Nuovo, nell’attuale via Silvio Pellico, la cui facciata è ancora ben visibile benché sconosciuta alla maggior parte dei forlivesi. Il suo corpo fu sepolto nella chiesa della Santissima Trinità, in piazza, appunto “Melozzo degli Ambrogi”. Il tempio, non lontano dal ponte dei Morattini, sorse sui resti di quella che alcuni studiosi ritengono essere stata la prima Cattedrale nel V secolo, con l’ingresso verso l’odierna via della Ripa, dove scorreva un grande corso d’acqua. La tradizione vuole che tale luogo di culto fosse stato edificato per volontà di San Mercuriale e qui, oltre a Melozzo di Giuliano degli Ambrosi, fu sepolto il pittore Francesco Menzocchi. 

Di Melozzo degli Ambrosi ci sarebbe molto da dire. Sarebbe uno di quei personaggi di cui la città dovrebbe riprendere consapevolezza. Chi è stato ai Musei Vaticani, o a Loreto, sa di cosa si sta parlando. E Forlì, città d'origine e cui restò assai legato, cosa conserva della sua presenza? Poca cosa: fino a qualche tempo fa si attribuiva al grande pittore il Pestapepe, affresco staccato e conservato in Pinacoteca. Ora pressoché nessuno crede a questa versione. La Cappella Feo, frantumata alla fine del 1944, è completamente sparita, ridotta in polvere che è servita per colmare i danni della guerra. La mano che pose la firma fu quella, appunto, di Melozzo, un Melozzo maturo. Poi collaborarono anche altri, nomi che fanno parte della scuola forlivese. Non rimane nulla della grande cupola colorata, dipinta a cassettoni esagonali sulla cui base erano rappresentati le figure di otto profeti. Al centro, si vedeva due corone di cherubini attorno al blasone della famiglia Feo. Sempre del Maestro, nella suddetta cappella si poteva vedere una lunetta con San Giacomo Maggiore e il miracolo degli uccelli selvatici (di Palmezzano). Vi erano rappresentati lo stesso Jacopo Feo, uno dei giovani capitani di Caterina Sforza e nipote del castellano della rocca di Ravaldino, amante (forse sposo segreto) di Caterina Sforza, dopo la morte, per opera di sicari, del marito Girolamo Riario, anch’esso raffigurato nella lunetta. Completa la scena la Tigre di Forlì che aveva voluto e commissionato la struttura realizzata, secondo le sue direttive, unendo le prime due cappelle sul lato destro della chiesa. Non esistono copie a colori, contemporanee o posteriori, né modelli, né bozzetti. Le scene, anche squarcio della vita di corte forlivese dell'ultimo Quattrocento, sono stati polverizzati da quattro bombe tedesche che il 10 dicembre 1944, oltre a causare la morte di 19 persone, arrecarono un danno impagabile. 

La ricostruita chiesa di San Girolamo (più nota come San Biagio) non ha previsto uno spazio simile a quello della cappella distrutta (manca anche il campanile), ma, come altrove è accaduto, si potrebbe prendere in considerazione un suo rifacimento. Certo, sarebbe un falso, ma Forlì è pur sempre la culla di Melozzo; vedere quelle pitture ormai solo nelle fotografie in bianco e nero priva la città tutta dei colori che l'hanno animata per quattro secoli. La testimonianza rinascimentale più cospicua che è stata consegnata al presente, almeno all'esterno pressoché identica ad allora, è l'oratorio di San Sebastiano, tempietto costruito su modello di un amico ricamadore di Melozzo, Pace di Maso del Bambase. Ora, a meno che non salti fuori un'opera del Maestro nascosta sotto l'intonaco di qualche stabile del centro storico, ciò che a Forlì resta del suo Melozzo si trova nella chiesa della Trinità, la cui facciata barocca tradisce l'antica origine del luogo di culto. 

Nel 1777 visitò la chiesa padre Marcello Oretti di Bologna. Egli descrisse le Pitture nella città di Forlì in un quaderno dettagliato sebben confuso, in cui raccolse tutto ciò che aveva visto della città che non c’è più. I suoi occhi si posarono sugli ingenti rimpianti della storia dell’arte forlivese: uno su tutti, San Francesco Grande, tempio di lì a poco smontato pezzo per pezzo, come per una diaspora assurda, per poi diventare mercato di generi alimentari. Quando entrò nella chiesa della Santissima Trinità, si soffermò sulla tomba di Melozzo. Fece uno schizzo, e sotto scrisse: "È murata contro la base della seconda colonna a sinistra entrando in chiesa". L’immagine riprodotta è la lapide in marmo che indicava l’ultima dimora dell’artista, da cui si deduce che visse 56 anni e 5 mesi. Passò qualche anno e, nel 1782, venne ricostruita la chiesa com’è ora, a tre navate, con la facciata verso piazza Melozzo, su disegno di padre Francesco Baccheri da Lendinara, quando era arciprete don Francesco Quartaroli. In codesto stravolgimento architettonico le ossa di Melozzo e di Menzocchi vennero messe a dura prova, ma il peggio a quanto pare fu fatto nel 1938. In occasione del cinquecentesimo anniversario della nascita del pittore, infatti, a Forlì fu promossa una serie di celebrazioni. Seguendo le indicazioni di “Pitture nella città di Forlì descritte da Marcello Oretti, bolognese, nell’anno 1777”, furono eseguiti lavori di ricognizione per capire dove fossero veramente i resti del pictor papalis. Le istruzioni sembravano facili: "È murata contro la base della seconda colonna a sinistra entrando in chiesa". Appunto, un gioco da ragazzi. Fare il conto passo dopo passo, immaginando un ingresso opposto dell’attuale, non era difficile. Molto più arduo era interpretare il guazzabuglio grafico del testimone oculare. E quindi fu posta dalla civica amministrazione forlivese una lapide in bronzo che riproduce l’originale in marmo che l’Oretti aveva disegnato nel sito preciso. Ma fu commesso un errore.

Attorno al luogo x fu scavato, e chissà che fine ha fatto il materiale estratto dalle viscere del vecchio tempio. Quindi anche le ossa potrebbero essere perdute. Infatti in quell’anno la chiesa della Trinità fu interessata da altri interventi massicci: per esempio, fu innalzata la cuspide del campanile. Stando così le cose, la lapide in bronzo non indicherebbe affatto la tomba di Melozzo. Fu, infatti, interpretata erroneamente l’indicazione dell’Oretti. Egli non aveva contato le colonne a partire dall’ingresso principale di allora, cioè sull’attuale via della Ripa, ma da una porticina aperta sul lato dell’odierna via Giovine Italia. Il portone maggiore, così è attestato, era stato chiuso per la rottura di un paio di scalini. Di conseguenza, il padre bolognese iniziò a numerare le colonne entrando dall’ingresso laterale. Si presume, dunque, che l’artista trovò l’ultima dimora in un luogo posto in una delle attuali cappelle di sinistra.

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