In 400 al pericoloso banchetto
Il modellino di uno strano attrezzo agricolo, un raduno di giovani reduci, Prefettura in allarme: cosa lega queste tre cose?
La recente acquisizione di un raro manufatto da parte del “Museo dei Mestieri e delle Professioni” che Giovanni Severi da anni cura con pazienza e passione in quel di Vecchiazzano, dà il pretesto a questa rubrica di aprire un'ampia parentesi su un fatto altrettanto curioso e che ha in comune luogo e personaggio. È, infatti, stato rinvenuto – per le segrete vie che i collezionisti ben si guardan dal rivelare – un modellino di un attrezzo agrario di metà dell'Ottocento, qui nella foto di Michela Mazzoli: è il polivomero copriseme inquadernatore, noto come polivomero Pasqui, che l'agronomo Gaetano Pasqui inventò e che ne diffuse l'uso in diverse zone d'Italia anche attraverso gli esemplari di modellini che faceva girare nelle varie esposizioni. Dopo un attento restauro, è tornato così a far parlare di sé un antico strumento agrario premiato e lodato in più regioni per la sua versatilità. A questa notizia si aggiunga pure che il Comune di Forlì ha appena deciso di dedicare a Gaetano Pasqui un parco a ridosso della via Castel Latino, a Vecchiazzano.
Ed è proprio dalla casa che vide sorgere quell'attrezzo strano che proviene la vicenda che segue. Domenica 16 aprile 1871 era in programma un raduno “di giovani appartenenti al partito repubblicano”. Detta così non suscita gran stupore, forse, vi è da dire che la situazione internazionale, in quel momento, era bollente: in seguito alla sconfitta di una lunga guerra contro la Prussia, in Francia fu proclamata la Repubblica. Ad alcune battaglie di questa guerra, specialmente quella dei Vosgi, avevano preso parte anche Garibaldi con alcuni italiani, e forlivesi. Qualcuno, quindi, aveva pensato di onorare i reduci e cogliere l'occasione di celebrare l'esperienza della Comune di Parigi, pertanto le giovani istituzioni dell'Italia di fresco unificata tremavano anche solo al pensiero.
Grazie al fatto che questo banchetto fosse stato attenzionato dalla Prefettura, se ne ha memoria, depositata negli atti ora conservati all'Archivio di Stato. Il raduno “di giovani appartenenti al partito repubblicano” si sarebbe svolto nella “villa di proprietà del signor Pasqui Gaetano di Forlì sito fuori Porta Ravaldino”, cioè sull'attuale via Ponte Rabbi, edificio non più esistente. “Promotori di questa dimostrazione sono il professore Tito Pasqui e il signor Pompeo Panciatichi, obiettori di essa il sig. Fratti Antonio, Bondi Federico, Landini Agostino”. Pare che si tratti di “un pranzo, un attestato di simpatia e d'amicizia ai reduci della guerra franco prussiana”. Nonostante ciò, c'è molta preoccupazione.
Si viene a sapere che il banchetto in origine era organizzato per la Domenica delle Palme ma, per onorare la morte di Adelaide Cairoli, sarebbe stato spostato alla Domenica in Albis, cioè due settimane dopo. Si viene ancora a sapere che Saffi era contrario e ciò causò un lungo diverbio con Danesi, uno dei promotori. Nonostante la contrarietà, comunque, il vecchio triunviro non farà mancare il suo appoggio. Per esso furono allertate la Prefettura e le “sottoprefetture” vicine, come quelle di Rocca San Casciano, Cesena o Imola. I nervi erano tesissimi, ed era visto con angoscia il probabile intervento degli zolfatari di Borello, ma là dicevano che “il pranzo di Forlì passa qui inosservato”.
Da interpretare i telegrammi cifrati mentre è chiara l'apprensione della Prefettura che mobilita addirittura la fanteria con “una ventina di uomini” e varie pattuglie di Guardie di Pubblica Sicurezza e Carabinieri. Il più sorvegliato pare essere stato Eugenio Valzania cui si annotano tutti gli spostamenti in treno. I partecipanti avrebbero condiviso la spesa di lire 1.50 a testa (praticamente 7 euro). Il fitto carteggio dei giorni precedenti presenta nomi di attenzionatissimi, come i fratelli Ricci, detti gli Svizzeri, o Pietro Landi di Imola.
Leggendo i rapporti dell'Ispettore della Polizia di allora, e dei testimoni, si riesce a ricostruire molto di quell'incontro che destava grattacapi, conducendo infine a un clima disteso. Il numero, da più fonti, pare confermato: “supera forse i 400 ma non erano certamente meno”, benché gli invitati fossero stati “più di seicento”. Il banchetto cominciò alle 15 e ogni “orto” aveva l'incombenza di adornare le tavole con bandiere, preferibilmente rosse “per farne un trofeo”. Il mugnaio del Molino Ripa, tale Pietro Bedei, era “al cancello a rilevare i biglietti”. La parte più attesa, però, non era il banchetto in sé, ma il comizio che ne sarebbe seguito: “si apriva il cancello della siepe che chiude dalla parte della strada la proprietà Pasqui e moltissimi individui tra uomini e donne vi presentaronsi”.
Da dove venivano? “Tranne il Valzania e altri due di Cesena non vi erano altri forestieri. Nè da Faenza, né da Ravenna ne vennero. Vi erano dalle parrocchie di Coccolia, Rotta, San Martino in Strada e Carpinello”. A conferma di ciò si legge anche: “Intervenuti la più parte di Forlì e della circostante campagna”. Erano soprattutto “braccianti e coloni specialmente della vicina parrocchia di San Martino, dove, anche per antecedenti non taciuti al Ministero, di gente facinorosa non v'ha penuria”. Non di gran numero i “cittadini del ceto borghese, e quei pochi erano i più noti faccendieri del partito, tanto di questa città, come Danesi, Fratti, Panciatichi e Gaudenzi; quanto di Cesena da dove arrivarono Valzania Eugenio e Comandini”.
Il banchetto fu “abbastanza frugale”, “alternato da grida allusive ai proponimenti del Partito” con intervento della banda municipale “alla spicciolata” grazie ai traffici del sellaio Ballardini; in cucina a preparar l'agnello c'era Raffaele Capaccini. All'esterno si vedevano ritratti di Mazzini e Garibaldi. Aurelio Saffi, rimasto a San Varano, affidò il suo intervento a un discorso che venne pronunciato dall'ingegner Gaudenzi, in cui si scusava di non essere presente perchè “non ho voce né lena da grandi adunanze”. Salutando affettuosamente i giovani reduci e gli intervenuti, pose all'attenzione un “triste avvertimento”: “Nè verrà per l'Italia il giorno delle grandi e feconde iniziative a pro delle nazioni sorelle, se que' doveri non siano adempiuti verso Lei stessa”. Pertanto: “è obbligo nostro non dimenticar ciò che siamo, e ciò che esser dovremmo”.
L'ingegner Gaudenzi, dopo aver letto la lettera di Saffi, aggiunse che “le dimostrazioni di piazza sono nocive al partito” e, in buona sostanza, disse: “siate tranquilli, aspettar non nuoce: il giorno della riscossa non è lontano”. Prese poi la parola Fratti esaltando il “coraggio dei volontari italiani” e parlò della Comune (di Parigi) “quale vera interprete delle idee repubblicane di Mazzini e Garibaldi”. Valzania, invece “disse poche ma calde parole”, tra cui: “I popoli sono tutti fratelli, sono comuni i dolori, i precipizi e le speranze” aspettandosi “prossimo il giorno in cui saranno chiamati ad agire pel bene della povera Italia”. Parlarono pure Danesi e Panciatichi anche se di questi interventi mancano approfondimenti. Per lettera, furono presenti pure Quirico Filopanti di Bologna e Malucelli di Faenza.
I nervi, comunque, erano tesi da ambo le parti se è vero che “certo Capobianchi voleva entrare fidando alla mediazione con tal Panzavolta, Capo Muratore, ma riconosciuto da altri fu respinto perché ritenuto per un incaricato della Pubblica Sicurezza”. Si creò poi un lieve tumulto quando due “finti bersaglieri” furono riconosciuti come Carabinieri. Tuttavia “solo quest'inconveniente ebbe a deplorarsi poiché esso fe' nascere il sospetto che fossero agenti della pubblica sicurezza, mentre sapevano che in quel sito era tollerata una piena libertà d'azione”. Altra documentazione conferma che in questo “allegro banchetto” pieno di garibaldini e dalla “impostazione repubblicana” non interverranno “tanto l'Aurelio Saffi quanto il Fortis”. Le istituzioni locali del tempo emisero un sospiro di sollievo, dopo le 7 tutti a casa, senza incidenti: alla fin fine lo scopo era più che altro fare baldoria.