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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Ipotesi per un palio a Forlì

Nonostante alcuni tentativi, Forlì non ha saputo riproporre, in tempi recenti, un suo proprio Palio. Eppure accadde che un giorno si vide un cavaliere vestito come un pesce... Qualche cronaca dalle feste barocche all'ombra di San Mercuriale.

Nonostante diversi tentativi, Forlì, pur avendone ben donde, in tempi moderni non ha saputo reinventarsi un Palio come, per esempio, è accaduto nella vicina Faenza. Mancanza di continuità, di partecipazione, di soldi, di conoscenze storiche: forse una o più cause hanno contribuito a spengere la passione per un genere ormai meramente turistico che a volte, di recente, fu proposto nel prato attorno alla Rocca di Ravaldino. Eppure le ragioni ci sarebbero: la ricorrenza del Calendimaggio 1282, per esempio, quella del sanguinoso mucchio citato da Dante (nell'immagine, come è riprodotto nella Sala del Consiglio comunale), ma non solo. Nel corso del medioevo si susseguirono giostre e corse, giochi che usavano la “pubblica piazza” come arena, cortei sacri e profani, date sbiadite, memorie poi dimenticate. Anche ben oltre, nel tempo, accadevano fatti simili. Se ne prende qui uno solo a mo' di paradigma.

Nell'anno 1621, in concomitanza con le nozze del Principe Aldobrandini di Meldola con Ippolita Ludovisi, nipote del Papa, furono organizzate grandi feste in quel di Forlì in stile pienamente barocco. In particolare, l'ultimo giorno d'Aprile festa del Glorioso nostro Protettore S. Mercuriale fu indetto un palio. Ora, occorre dire che all'epoca la festa di San Mercuriale era fissata al 30 aprile e formava una sorta di settimana “sacra” per i forlivesi con le date del 1 maggio (Beato, poi Santo, Pellegrino Laziosi) e il 4 maggio (San Valeriano, altro Patrono il cui culto da cinquant'anni è svanito). In seguito, la ricorrenza del Protovescovo Mercuriale fu spostata al 26 ottobre, data che corrisponde a quella odierna. La Cronaca, nel dettaglio, è raccontata dallo storico Sigismondo Marchesi che si prodiga in descrizioni che qui si ometteranno. La “mossa” era data alla Crocetta (quasi nel centro del Campo dell'Abate) e la corsa di cavalli proseguiva fuor della porta de Gottogni fino alla piazza. In poche parole, il tragitto doveva essere, secondo l'odonomastica contemporanea: piazza Saffi, corso della Repubblica, piazzale della Vittoria, corso della Repubblica, piazza Saffi.

Non solo: il 4 maggio di quello stesso anno, si tenne una “giostra”, cioè un ulteriore corteo-palio (in palio, si scusi il gioco di parole, era proprio un palio di velluto nero con due collane d'oro) particolarmente sfarzoso, tanto da che comparvero il giorno avanti in Forlì forastieri senza numero. Al torneo presero parte i rampolli di famiglie note, per nobiltà o altre glorie, della città. Per esempio il primo concorrente fu Antonio dall'Aste, chiamato il Cavalier dalla Perla che procedeva su un bizzarro destriero dietro al quale un cavallo reggeva (suo malgrado) un Dio Nettuno sopra varie conchiglie, con corona e tridente. Attorno ad essi, paggi e araldi vestiti d'argento a imitazione delle squame dei pesci e non potevano mancare altre divinità marine tutte sopra conchiglie a cavallo. Anche il cavaliere era corazzato a mo' di squame di pesce e sull'armatura recava una conchiglia aperta con una perla e il motto Ride al mio pianto, colori dominanti: argento e azzurro. Pure tutto il resto (cimiero, scudo…) era a tema “marino”. Poi fu il turno di Alessandro Paolucci, detto Mitilauro Prencipe de gli Uscocchi, colori dominanti: scarlatto e oro. Vestito come un uscocco (cioè una sorta di guerrigliero balcanico anti-turchi), abbondava di rami di mirto e di alloro, col motto latino: Serta Dabunt. Il terzo era Girolamo Mangelli, abbigliato con una ricca divisa arancione, nera e bianca. Nel cappello portava un suo pensiere amoroso tanto da farsi chiamare Cavalier Fedele, con tanto di scudo con leone bianco e motto Tragge da la mia fede i suoi candori mentre i suoi paggi dispensavano poesie. Il quarto era Lorenzo Orfelli, un curioso cavaliere en travesti in quanto voleva rappresentare la Regina delle Amazoni. Era simile, quindi, a una donna guerriera con una veste bianca e azzurra ed elmo coronato; mostrava con la mammella sinistra alquanta rilevata d'haver recisa la destra. Era armato con scure e protetto da scudo lunato, il tutto ornato da un'orsa dipinta legata con catena e col motto Ne aborsus pariam portato da dodici donzelle di somigliante livrea. Come quinto cavaliere si presentò Francesco Maldenti, col curioso nome di Orficar di Tingitania l'Infiammato. La livrea capricciosa voleva dare suggestioni nordafricane: si era tinto come un moro e indossava un abito bianco listato di porpora & oro impreziosito da fiammelle qua e là. In testa, un turbante e il motto era: Al fumo del mio fuoco. Sempre alla mussulmana era vestito il sesto: Bartolomeo Brocchi, col nome un po' maldestro di Broccaus di Tracia: la livrea era di color Perso ricamata con lune d'argento. Anch'egli aveva un turbante, tempestato di moltissime gioie. Suo motto era: In questo ciel non temerò d'ecclisse. Davanti a lui, dodici paggi vestiti alla Giannizzera. Il settimo fu Nicolò Agostini sotto il nome di Cavalier del Candore. Nemmeno a dirlo, era caratterizzato da un bianco unicorno col motto: Ne men candida ho l'alma. Suoi colori principali: bianco e oro. Più sbalordimento destò l'ottavo: Cosimo dall'Aste detto Cavaliere di Livia. Ma di costui (che merita più spazio) e degli altri contendenti si leggerà la prossima volta. Intanto, se qualcuno pensasse a ripristinare queste curiose feste barocche non sarebbe una cattiva idea. 

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