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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

L’ansa della Brilleta

A quasi un mese di distanza dalla grande alluvione, un salto nel Settecento per scoprire come “si uccide” un fiume

Il Settecento, secolo di alluvioni, terremoti e rivoluzioni. Le piene non erano un fenomeno infrequente ma lasciavano sempre stupiti i forlivesi, e impauriti. Giusto per fare qualche esempio, il 25 settembre del 1717 si aprirono le cateratte del cielo, ne conseguirono “acque impetuosissime che durarono molti giorni”, ciò causò “molte rotture ed inondazioni di fiumi”. Il 20 ottobre 1718, dopo un periodo di aridità lungo “un anno intero”, “cominciò a piovere” tanto da compensare “per due hore continue” la “siccità patita per tanti mesi”. Il 15 novembre del 1719 precipitò una “furiosa pioggia di poche ore” finché “venne una piena così gagliarda” che “pochi vi furono havessero memoria di una uguale”. Tali spunti sono tratti da una cronaca manoscritta conservata nel Fondo Dall’Aste Brandolini all’Archivio di Stato di Forlì. 

Per il ripetersi di fenomeni che oggi definiremmo estremi, nessuno per secoli aveva messo mano a una zona golenale paludosa in cui stagnava un vecchio ramo ormai morto del Montone, detto ansa della Brilleta. Oggi la si riconosce nel tratto iniziale di via Consolare, a semicerchio, un po’ argine di un fiume ormai invisibile, un po’ vecchio tracciato della via Emilia (non necessariamente quella romana). La traiettoria curvilinea era l'unico espediente per aggirare un grande spazio lacustre ora ravvisabile nel dislivello tra lì e viale Bologna e per seguire l'andamento di un meandro che s'impaludava non avendo più sbocchi da tempo, un alveo del Montone poi abbandonato dal Montone stesso. 
A metà del Settecento, però, si volle effettuare un taglio di quel corso d’acqua con l’intento di estinguerlo per sempre: insomma, il fiume morì di morte naturale o fu ucciso? Il vecchio meandro, a poco a poco, scomparve pur lasciando traccia della sua esistenza come deposito di acque ferme. Una perizia comunale riportata sul libro “Serallium Colunbe” di Gianluca Brusi testimonia una verifica fatta nel 1768 per capire se “le acque stagnanti in esso rimanghino”.

Altresì si evince che il tratto ormai paludoso e senza sbocco avesse numerosi affluenti, degli scoli che rendevano la zona molto più di uno stagno. Tra essi spiccano il “condotto de’ Padulli” e si menziona una fontana di cui si parlerà a breve. Nel 1811 venne realizzato l’attuale rettilineo di viale Bologna, rialzato a mo’ di diga sulla Brilleta, a taglio sulla zona del Fiume Morto. Si salutò il progresso in quanto la nuova strada avrebbe accorciato la distanza tra Faenza e Forlì “di circa un miglio” rispetto al passaggio sulla vecchia via Consolare. Via Consolare, cioè la strada antica, che fu comunque mantenuta con la sua "Voltaccia" perché conduceva alla suddettta fontana “della quale tanto approfitta la popolazione”, confiderà Pellegrino Baccarini. È la Fontana di Schiavonia, nota anche come Fontana di Riatti, ora spenta, così chiamata perché sgorgava nei pressi della proprietà Riatti, famiglia di origini reggiane. All’interno della zona acquitrinosa doveva trovarsi la chiesa di Sant’Agostino in Padulli, luogo piuttosto sfuggente ma sicuramente dotato di ospedale circondato o meglio chiuso per due lati dal Montone.

La bonifica definitiva della Brilleta, la scomparsa dell'ansa e il nuovo viale per Bologna sono tutti passaggi di un percorso a tappe che dal Settecento ha gradualmente favorito la crescita e lo sviluppo del bel quartiere oltre il Montone e ha oggettivamente raddrizzato e razionalizzato la via Emilia persa nell'alto medioevo tra acque stagnanti. Ancora proseguendo in direzione Faenza si ripetevano aree inospitali, una continuità di paludi contrastate con più o meno riuscite bonifiche antiche, come quella riguardante la “Lacuna Cava”, l’attuale quartiere Cava. Per avere qualche riferimento che forse non si nota a occhio, basti dire che se il centro storico è mediamente a 32 metri sul livello del mare, l’area della Brilleta supera di pochissimo i 20. Tale dislivello, circa un mese fa, ha suggerito alla piena del Montone dove dirigere i flutti consentendo di ritrovare facilmente i propri spazi ancestrali, fatti di acqua e di vegetazione palustre. 

Resta, infatti, la particolarità del nome “Brilleta”. A cosa si riferisce, che significa? No, non evoca il riverbero della luna sull’acqua ma ricorda all’uomo moderno e contemporaneo che tale zona era “luogo coperto di salici viminali”, cioè alberi mai troppo alti che si trovano lungo i corsi d’acqua e dai cui rami si producono oggetti, appunto, in vimini. È un termine antico, di derivazione bizantina e come tale contenente in sé una verità immutabile. In effetti, pare che nemmeno i romani, non certo rinunciatari, abbiano desistito dall’addomesticare questo territorio e di sicuro le frequenti alluvioni hanno cancellato ogni traccia dei rigori geometrici della centuriazione.

Ha lavorato così alacremente, il Montone, da far perdere ogni certezza su come dovesse essere in origine il suo corso, non essendo chiarissima tutt’ora la storia dell’idrografia forlivese. Da queste parti, infatti, è ancor più vero l’adagio “l’acqua cheta rompe i ponti”, perché, fuor di metafora, l’Acquacheta (nome aulico per il Montone), sebbene d’estate sia un rigagnolo dove aironi cercano pesci in crisi di ipossia, è ben capace di fare disastri. Si può dunque dire che fino al Settecento il paesaggio della Brilleta e più in generale dell'attuale quartiere Romiti sia stato più o meno lo stesso ch'ebbe visto Dante Alighieri sceso lungo il Montone dalle cascate infernali dell’Acquacheta verso Forlì. Area selvaggia quasi selva oscura, certo, da favorire la vita da eremiti o romiti, appunto. 

Il termine Brilleta altrove Berleta significa pure “greto cespuglioso di fiume”, e può ricordare anche la “berula erecta”, cioè la “sedanina d’acqua”, ombrellifera nativa di acque stagnanti che fiorisce nella stagione estiva. Per altre divagazioni semantiche si scopre un’ulteriore definizione per Brilleta: “Terreno incolto e cespuglioso nelle golene o a ridosso degli argini fluviali” dove, appunto, crescono i “brilli”, cioè i giunchi. Fino al Settecento in Romagna le aree golenali, precluse all’antropizzazione, erano chiamate così. 

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