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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

La centrale del tabacco non vada in fumo

L'essiccatoio della Pianta, costruito negli anni Venti, è da tempo in stato di abbandono. Quale sarà il suo destino? Prima di cancellare la struttura, occorre conoscerne la storia.

In altre città sono strutture tutelate, a Forlì non si sa. Quale sarà il destino del già essiccatoio del tabacco tra via Cadore e via Bengasi? Nel frattempo, sull’area è spuntato un grosso supermercato, ma l’edificio costruito quasi cent’anni fa alla Pianta rimane lì a interrogarsi sul suo futuro. Si spera che non sia il suo smantellamento perché ha una lunga storia da raccontare. E Forlì, città dalla memoria corta, ha bisogno di conservare il più possibile le testimonianze del suo passato. Se, come detto, nel 2013 fu festeggiata l’inaugurazione del supermercato, sembrava che il destino della grande struttura fosse segnato: o demolizione e sostituzione con villette a schiera, o recupero con miniappartamenti. Ipotesi, entrambe, che qualsiasi amante della storia della città vedrebbe con grande amarezza. Ancora il piccone non s’è mosso, è auspicabile che non accada e, anzi, venga riscoperta la storia di questo curioso e produttivo angolo di una Forlì perduta in modo da salvare e valorizzare, magari con un percorso – perché no – museale, la testimonianza di archeologia industriale. Chi prenderà decisioni in merito ricordi che essiccatoi di tabacco sono Patrimonio culturale dell’Emilia-Romagna. Infatti, altrove hanno saputo rendere queste strutture dei luoghi vivi e capaci di attrarre curiosi di storia locale. Per quanto riguarda Forlì, si vedrà.

Il ragionier Giuseppe Cimatti, possidente con lo sbuzzo per la tecnologia applicata alla tradizione agraria, nel 1923 ideò la struttura che divenne l’unico impianto simile in territorio forlivese. In accordo col Monopolio di Stato, realizzò così una vera e propria industria capace di dare lavoro a venti operai: la stagione andava da agosto a dicembre, perché l’essiccazione, oltre a sottostare a rigide regole, avveniva gradualmente e con la distribuzione del calore nelle varie celle. La struttura di 1.260 metri quadrati, poteva essiccare – in grandi cameroni – la produzione di quaranta ettari di tabacco, cioè 350 quintali di piante. Niente andava buttato e scrupolosi erano i controlli dei funzionari statali perché tutto avvenisse secondo le norme.

Così, nella galleria del vasto edificio entravano carri carichi di tabacco, se ne prelevavano le foglie che poi erano agganciate a telai sotto il tetto. Nel frattempo, a terra, fuochi alimentati a legna affumicavano gli ambienti; la caligine lasciava il suo acre sentore in tutto il quartiere e, talora, perfino in centro storico. Questo mondo finì con il secondo conflitto mondiale dopo il quale la “centrale del tabacco”, popolarmente fuiàza, fu riconvertita in celle frigorifere e locali di conservazione specialmente di frutta. L’essiccatoio, pur non avendo un aspetto che colpisca per il suo fascino, è un luogo da tutelare e sarebbe interessante impegnarsi per impedirne lo snaturamento. Tra l’altro, nel 1944 vi ebbero quartiere le truppe britanniche, per meglio dire indiane. Nel primo dopoguerra lo stabile fu utilizzato perfino come balera: chi la frequentava ricorda ancora i vestiti impregnati dall'odore del tabacco e i capelli impiastricciati, ma questo era il prezzo per scatenarsi alla bivirona, così era chiamato il locale riadattato, traendo il nome da una fontanella tra via Bengasi e via Adamello. Le bianche pale di qualche ventola di aerazione girano ancora, tuttavia il luogo si presenta abbandonato e i cartelli “Attenzione fabbricato pericolante” mettono in guardia chi avesse l’idea di avvicinarvisi troppo. L’edificio a L fa ombra, nella sua parte interna, a un parcheggio. La parte esterna mostra una facciata anonima e austera, con un susseguirsi di finestre murate, ma imponente.

Se è vero che oggi parlare di tabacco significa ribadire i rischi per la salute che tale genere di economia cagiona, occorre ricordare che la pianta è coltivata in Italia dalla fine del Cinquecento. Nella seconda metà dell’Ottocento, un forlivese (cugino dello scrivente), Tito Pasqui, tra altri mille interessi ne studiò con attenzione la coltura. Porta la data del 1888 la sua pubblicazione intitolata: “Coltivazioni sperimentali. Notizie preliminari sugli esperimenti delle coltivazioni di tabacco”, relazione fatta al Consiglio tecnico dei tabacchi su alcuni esperimenti condotti in varie località italiane (Pezzapiana, Perrotti, Pontecorvo, San Cumano, Sant'Angelo, Saponara, Cava dei Tirreni, Nocera, Delebio) con proposte per ulteriori esperimenti. Qui si legge: “La precedenza assoluta da darsi al metodo sperimentale nello studio di miglioramenti agrari, è maggiormente sentita in quello riflettente la coltivazione dei tabacchi, poiché, essendo questa esercitata esclusivamente per conto dello Stato, pericolosa può riuscire ogni intempestiva innovazione per l’azione che può esercitare sulla Finanza, la quale deve giovarsi, per conservare la sua saldezza, di fatti e di mutamenti, che valgano indiscutibilmente a sorreggerla”. Sempre del forlivese, nel 1891 è registrata una proposta di legge alla Camera dei Deputati con “Relazione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul tema della coltivazione del tabacco indigeno”. Più avanti, tra le due guerre mondiali, in vari poderi romagnoli si piantava tabacco, su delega del Monopolio di Stato che contava ogni foglia, anche se marcia. Già nel 1913, il conte Paolo Orsi Mangelli aveva promosso tale coltivazione intensiva in luogo della bieticoltura, costruendo un primo fabbricato per la sua lavorazione. Da qui l’esigenza di un grande essiccatoio a Forlì.

Il "tabacco indigeno" ora è per lo più affare degli umbri, in Romagna restano le tabaccherie. Si può dire che, da queste parti, la pericolosa “moda” tabagista toccò i vertici di diffusione tra le due guerre mondiali. Oggi, secondo i dati della “Giornata mondiale senza tabacco”, i forlivesi che si dichiarano fumatori sono il 31% del totale della popolazione, un filino meno rispetto ai ravennati e poco più dei riminesi. 

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