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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

La "lunga prova" di Forlì

Tra il 30 aprile e il 1° maggio 1282 si registrò il fatto più clamoroso della storia della città. E i forlivesi dovrebbero ringraziare anche oggi Guido da Montefeltro.

Due domande, di cui la seconda è più efficace rendendo meglio il concetto del quale qui si scrive: chi è stato il miglior politico che Forlì abbia mai avuto? A quale personaggio storico Forlì deve di più? Ambo le domande si prestano a varie interpretazioni. Ma a ben vedere la risposta è una: Guido da Montefeltro. Come dice il nome, non era di qua, fu adottato dai forlivesi in quanto campione dei ghibellini. Per matrimonio divenne Conte di un castello sul Bidente nei pressi di Civitella, pertanto fu ascritto alla cittadinanza liviense. Visse a lungo per quel tempo, e – nonostante che avesse pressoché tutti contro – seppe fare, oltre che i suoi interessi, anche gli interessi di Forlì. Poco importa, a questo punto, se Dante lo colloca all'Inferno. Forse non tutti sanno che Guido morì ad Assisi col saio francescano, in seguito a una conversione maturata dopo i settant'anni. Già di inclita fama, il suo nome piomba nella storia nell'ultimo quarto del Duecento e, chi si ricorda di lui, ricorda le di lui gesta in quel clamoroso episodio di resistenza locale contro i grandi poteri sovranazionali chiamato Battaglia di Forlì o, per dirla con Dante (al Canto 27 dell'Inferno), Sanguinoso mucchio, con la data di Calendimaggio 1282. Più volte si è tentato di proporre un palio stabile e continuativo per tale data significativa anche perché rappresenta una specie di giubileo forlivese, ricorrendo in una settimana tra l'antica festa di San Mercuriale (poi spostata a fine ottobre), la ricorrenza di San Pellegrino (che a quel tempo era adolescente) e la memoria del patronio dimenticato: San Valeriano. Si muoverà qualcosa in merito?

Ora, i fatti del 1° maggio 1282 sono poco conosciuti e ne viene dato sovente un taglio che chi ama la storia non può che rigettare. Una certa vulgata, infatti, vuole che la Battaglia di Forlì sia stata una specie di tonnara ordita da forlivesi incarogniti, guidati da Guido. Se non se ne contestualizza la vicenda e non si legge secondo quanto era d'uso a quel tempo, ogni approfondimento diventa distorto. Non essendoci chiare memorie visibili sul fatto incredibile, ci si accosta ad esso con pudore eccessivo, quasi vigesse un senso di colpa insensato. Fino al Seicento, al centro della piazza Maggiore, stava un tempietto che ricordava quel giorno: era la Crocetta (nell'immagine). Poi sostituita dalla Colonna della Madonna del Fuoco. Poi dal monumento a Saffi. La Crocetta, col suo leone pacioso e fiero, fungeva da monito e rimembranza per chiunque andasse in piazza: era il caso di volgere il pensiero a quanti lì siano stati pietosamente sepolti. Così adesso è difficile avere la consapevolezza che la vasta area ora intitolata al Triunviro sia un cimitero di francesi. Nella Crocetta si celebrava una messa a settimana ed era un luogo molto caro ai nostri antenati. Per opportunità politiche (per i francesi valeva il ricordo di una clamorosa iattura) ne fu più volte minacciato lo smantellamento, ma solo il legato pontificio Domenico Rivarola riuscì a eliminarla. 

Della Crocetta, atterrata nel 1616, sono pochi resti, o forse nemmeno questi: c'è chi dice che due manufatti dentro San Mercuriale (una croce in marmo e una grande scultura in sasso spungone in cui si legge la sagoma di un leone) siano ciò che rimane, per altri vi sono reliquie presunte nel giardinetto (visibile da largo de Calboli) tra la Cappella dei Ferri e la Cappella del Sacramento. Si nota una colonna, un fregio e altri avanzi di sculture in pietra. Difficile provare che non siano testimonianza di cappelle soppresse nel corso dei vari restauri interni dell'abbazia. Tra tutti, è forse il leone consumato il più plausibile resto del monumento che sarebbe auspicabile vedere riproposto, magari in un cantone della piazza. Infatti, la Crocetta fu smontata dalle autorità di allora con gran dispetto della popolazione. Rappresentava l'episodio più memorabile della storia di Forlì e, per tre secoli, guardava la grande piazza. Furono apportate piccole modifiche (per esempio il leone fu "girato" verso il monte da Caterina Sforza) ma sostanzialmente rimase lì, come vollero il Beato Giacomo Salomoni e Guido Bonatti. Pare che sulla facciata vi fosse un'iscrizione in latino che più o meno potrebbe esser così traducibile: “Militando Giovanni d'Appia - Condottiero francese in Italia - Entrò per comando di Martino IV in Forlì - E presentata ai Forlivesi nelle calende di maggio 1282 - Vigorosa battaglia - Restò morto egli stesso con 8 mila dei suoi - Duemila dei quali giacciono quivi sepolti - Avendo i Forlivesi per loro Generale - Guido da Montefeltro”. E questa vale come sintesi della storia. 

Storia che fu mossa da un esercito inviato da un papa francese, Martino IV, che voleva sottomettere i ghibellini forlivesi con truppe prevalentemente francesi. Forlì rispondeva con i più scaltri ghibellini italiani il cui capo indiscusso era Guido, consigliato da un altro Guido, Bonatti, astrologo e scienziato. Già i personaggi meritano una sceneggiatura, una serie televisiva da quarantena ma dai contenuti assai più avvincenti. Dante segue a distanza e scriverà poi, era stato segretario degli Ordelaffi e sapeva tanto al riguardo. Forlì così diventa "la terra che fé già la lunga prova". Come per atto di fede, la città tutta si vota al ghibellinismo sostenendo un immane sacrificio. Già alla fine del 1281 l'esercito francese aveva posto in assedio Forlì, ultima roccaforte italiana. Per completare l'opera, Martino IV inviò in Romagna un esercito di prima scelta condotto da Giovanni d'Appia, generale anch'esso francese. Le truppe, accampate fuori le mura, avevano saccheggiato e raso al suolo i villaggi del forese con una crudeltà e una vigliaccheria mai viste. La stessa Forlì, al colmo delle vessazioni e delle privazioni, fu spinta ad arrendersi. Altri avrebbero lasciato passare, Guido da Montefeltro non volle. Era il signore (solo de facto) di una piccola città che rappresentava una grande grana per i meccanismi della storia medievale. Nei mesi di assedio, aveva provato con la diplomazia ad evitare lo scontro pur desiderando preservare la singolare autonomia forlivese. Ma la risposta fu: picche! Solo l'astuzia, un po' come Ulisse, poteva sconfiggere uno scontro decisamente impari. Pensò di lasciar campo libero ai francesi fin quando Bonatti, dal campanile di San Mercuriale, avrebbe dato il segnale della riscossa e della resistenza. Del resto, le stelle all'astrologo avevano detto bene e quell'azione lucida e folle era da fare. Guido da Montefeltro, stratega accorto e visionario, credette ciecamente alla profezia dell'amico: Marte stava entrando in Capricorno (segno zodiacale di Forlì), quindi il momento era fasto. Come se niente stesse accadendo, si svolse regolarmente il palio di San Mercuriale, con le corse intorno alle mura da Porta San Pietro a Porta Cotogni e le sfide tra trecento splendidi cavalieri corazzati. I senatori della città preferivano continuare a vivere sotto assedio, era da sprovveduti, secondo loro (e come dar torto) affrontare con uno scontro frontale l'avversario soverchiante in numero e forza. Guido si adirò, e gridò il suo "o la va o la spacca", perché Mi pare di vederla, - così disse - la vostra rovina. Nessuno osò contraddirlo. Nella notte del 30 aprile, Guido, seguito da un fedele manipolo, uscì dalle mura di nascosto per acquartierarsi nei dintorni della città; altri armati rimanevano celati tra le vie del centro. Con lui non c'erano solo soldati, ma anche nobili, artigiani, gente del popolo. Ronde di gente comune perlustrava le mura mentre un gran numero di cuochi stava preparando cibarie per l'esercito di cittadini. Il 1° maggio, mangiarono a più non posso: fave, lenticchie, fagioli, ceci conditi con olio e sale, pane, vino. La piazza era una grande tavolata e, da fuori, la città diede l'idea di essere indifesa, a porte aperte. Alla scampanata di Guido Bonatti, Guido da Montefeltro condusse quattrocento cavalieri, e balestrieri e arcieri, oltre Porta Valeriana (alla fine di via Battuti Verdi)  ordinando di aspettare. Mandò un altro manipolo oltre Porta Santa Chiara, con lo stesso ordine. I francesi, dal canto loro, erano ben ottomila davanti a Porta Valeriana e diecimila sulla via Emilia, in località Cassirano. Chevaliers, Monjoie! urlavano gli uni, A la morte, a la morte gli altri, tutti dentro una pagina epica. Lo scontro, di almeno tre ore, fu durissimo ma l'astuzia di Guido ebbe la meglio: i forlivesi formarono un cuneo che si gettò nella mischia, un po' testuggini, un po' leoni. I francesi, frastornati, non riuscirono a reagire e si ritirarono con perdite e in malo modo. Chi fuggì verso Faenza venne ucciso. Tutti i cittadini, coordinati dal capo geniale, contribuirono a tanto eroismo. A proposito, a Forlì stava succedendo di tutto: la città era in mano agli invasori che rubavano, violentavano e facevano altre cose innominabili. Vi erano rimasti, di autoctoni, solo donne, bambini e vecchi. Guido da Montefeltro rientrò in città con gli uomini e soldati, fece sorvegliare e chiudere le porte: i francesi ormai si davano alle gozzoviglie e a risse e tafferugli, convinti che là fuori fosse il grosso dell'esercito in arrivo. Fattasi sera, Giovanni d'Appia e i suoi soldati (nell'ordine delle migliaia di persone), crollavano al suolo satolli, ebbri, stanchi. Al segno, i cittadini apparentemente inerti e addormentati si rivelarono soldati che, a colpi di lancia e spada, irruppero sugli invasori chiusi nel labirinto di una città sconosciuta. Rimasero a terra i corpi di centinaia di uomini di Giovanni d'Appia, addirittura duemila (i nobili e gli ufficiali) sarebbero sepolti sotto piazza Saffi. Altri vennero inumati negli antichi cimiteri di Santa Maria in Laterano in Schiavonia, del Duomo, o in fosse a Villanova e San Bartolo. Pare che i morti, in tutto, siano stati ottomila. Nessun francese entrato a Forlì ne poté uscire. La pietà, però, mosse la comunità a seppellire quei ragazzi transalpini. Le truppe francesi, per la prima volta dopo lungo tempo, avevano perso battaglia, uomini e fama a Forlì e per secoli il nome della città ha incusso timore, oltre le Alpi.

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