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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

La Ripa: un'isola nel cuore di Forlì

Dieci anni fu annunciata la cessione della fu Caserma Monti. Ci sono idee, progetti e fondi per recuperare uno dei luoghi più importanti della città? Prima che sia troppo tardi.

Un’isola nella città. Tra le sue mura ha accolto prima solo donne, poi solo uomini, rimanendo un segreto per i più. Quella del Monastero della Ripa o della Torre di Forlì è un’area gigantesca, due ettari e mezzo costruiti entro il perimetro dell’antico Forum Livii. Complesso monastico di clausura dal Quattrocento, fu soppresso da Napoleone nel 1798 e da allora ebbe ruoli militari. Era la sede del glorioso Distretto Militare di Forlì, smantellato nel ’96 a favore di Bologna. Prendeva nome di “Caserma Monti”, prima della guerra la struttura era dedicata a Ferdinando di Savoia. Nell’ottobre 2008 venne annunciato che l’area sarebbe passata dalla gestione del Demanio militare a un ente territoriale che potesse essere la Regione o il Comune. Innumerevoli i ragazzi che sono stati qui quando la leva era obbligatoria mentre Forlì vantava un Distretto Militare strategico con competenza su tutto l’Alto Adriatico, Romagna e Marche. Fino a vent’anni fa, infatti, il confine tra Oriente e Occidente passava sul mar Adriatico. Da quel 2008 sono passati dieci anni e, salvo ripetute visite guidate, il grande monastero è tornato nel suo sonno silenzioso. Nonostante la sua riscoperta, per molti forlivesi rimane un mistero, una città silente dentro la città. Si era abbozzata una manciata di proposte; il tempo non pare aver cambiato le cose, è stato fatto qualcosa? In effetti, l'area è enorme e andrebbe valutato un progetto di ampio respiro, valorizzando e rendendo fruibile a chicchessia tale spazio senza tempo, ricordando che un chiostro così, da queste parti, non l'ha nessun'altra città. 

Caduto il muro, acchetatosi il turbolento post-Jugoslavia, fu scelto di chiudere la Caserma Monti. All’insaputa dei forlivesi, è stata una specie di “Area 51”: a due passi da Porta Schiavonia qui erano depositati importanti armamenti nascosti in magazzini fabbricati nelle ampie zone verdi, un tempo giardino e orto per l’autosufficienza delle francescane di clausura. Sui muri resistono le scritte “E’ finita”, con tanto di data ed esclamazioni gioiose; rimangono le indicazioni obsolete degli uffici del comando di presidio, dell’ufficiale sanitario, degli obiettori di coscienza, maggiorità e posta. Si trovano spazi vuoti, umidi, con tracce di arredamento ministeriale, prese elettriche staccate. 
Grazie alla presenza secolare dei militari la struttura non è stata cancellata dalla storia; benché l’adattamento a ruoli difensivi abbia portato a snaturare alcune parti, il fascino, comunque, è sempre intenso e nella sua decadente attualità si carica di suggestione. La storia di questo luogo è il paradigma di Forlì: i suoi abitanti sono convinti che in città “non ci sia niente” e vivono un ottuso complesso d’inferiorità. Eppure, basta valicare il muro di mattoni, auspicando un veloce e benfatto recupero dell’intera struttura con una destinazione consona all’importanza del sito. 

Oltre il muro, infatti, c’è un chiostro simile, ma maggiore del doppio, a quello di San Giovanni dei Genovesi a Trastevere. Non c’è più l’orto, ma una distesa d’asfalto. Vasti prati e arbusteti oramai selvaggi si aprono all’esterno. Il porticato è fermo nel tempo, venusto, in esso l’architettura neogotica s’innesta in quella rinascimentale. Giuliano Missirini, nella sua Guida, così lo descrisse: "Vastissimo e quadrilatero, da guarir claustrofobi coi suoi 1570 metri di scoperto, tanto poco è chiostro. Piazza aperta alla luce, più che a riparo a meditazioni postprandiali. Sull’ampio portico a nove archi per lato, le dodici luci della bassa loggia. Si sorregge alla semplice trabeazione di legno, il tetto. Le colonne, in mattoni rosa, sono ottagonali. I capitelli: smussati in sito". Già, nella città di mattoni anche le colonne, alte e slanciate, sono in laterizio. Delude la chiesa, che addirittura doveva essere doppia: una per il popolo e una per la clausura. Ci vuole fantasia per immaginarsi com’era: ora è sezionata in più parti e addirittura due piani. Nel piano terra si scorgono tracce di affreschi. Di sopra meravigliano le volte e capitelli in pietra e l’acustica ideale per concerti raffinati. Facendo due conti si scopre che la chiesa doveva essere alta 12 metri, lunga 40 e larga 10. Essendo un luogo di culto francescano, non aveva cappelle gentilizie o decorazioni particolarmente ricche. Però c’erano quadri di rilievo. Rocambolesca è la vicenda del grande affresco di Palmezzano alto 5 metri e raffigurante la Crocifissione: era presente nel refettorio del monastero e nell’Ottocento illuminati concittadini fecero di tutto per staccarlo e conservarlo in Pinacoteca, dov’è tutt’ora. Rimane uno dei pochi, e sicuramente il maggiore, tra gli affreschi del pittore forlivese. 

Non è, inoltre, una speranza infondata immaginare la presenza di qualche lavoro di Melozzo segreto dietro strati e strati d’intonaco. Ci vuole spirito di osservazione per cogliere i residui della stanza del capitolo non lungi da una strana bifora dietro alla quale è stata collocata una vetrata improbabile, a nascondere una moderna scala che raggiungeva gli uffici del Distretto. Uno scalone settecentesco, invece, conduce alla presunta dimora della Badessa e al piano superiore: piange il cuore a vedere un banale corrimano che fa a pugni con gli spazi ariosi e solenni di questa addizione posteriore. Suggestivi sono i corridoi e le oltre cinquanta celle pressoché intatte: 5 metri per 5. In tempi di vocazioni sincere o indotte, alla Ripa convivevano un centinaio di monache di buona famiglia, persuase che la chiusura verso l’esterno non fosse prioritaria quanto l’apertura verso l’interno; tra le mura c’erano pure ragazze in attesa di dote per maritarsi. L’area sottostante, da 3 metri in giù, meriterebbe sondaggi archeologici perché l'antico Forum era lì: si è svelata la traccia di un'antichissima Domus urbana con tanto di mosaici. 

Nascendo come sito esclusivo, non è mai entrato nella vita pubblica della città, pur essendone protagonista fin dalle origini. Nei primi anni ’70 del Quattrocento, infatti, due ordini di suore francescane si sistemarono in un modesto edificio davanti alla chiesa della Trinità, caratterizzato da una torre fiorentina sull’odierna via Giovine Italia. Su richiesta di suor Margherita Framonti Aliotti, fu proposta la costruzione di un’ampia struttura adatta ad accogliere un maggior numero di sorelle. Fu Pino III Ordelaffi il primo sponsor del monastero, chiedendo a Papa Sisto IV la facoltà di erigere la nuova struttura coi finanziamenti derivati dall’eredità della madre e della seconda moglie Zeffira Manfredi. Nel 1474 ci fu la posa della prima pietra alla presenza del vescovo Alessandro Numai. Dieci anni dopo, sotto il governo Riario-Sforza, erano terminate le possenti mura di cinta che tutt’oggi confinano l’isolato. Nel 1497, con Tommaso dall’Aste vescovo, fu inaugurata la chiesa. Qui fu collocata la prodigiosa Immagine della Madonna della Ripa, superstite di un’alluvione che aveva cancellato il mulino che la custodiva. Ora l’Immagine è conservata dalle eredi delle francescane della Ripa, le clarisse che vivono la clausura nel monastero annesso alla chiesa di San Biagio. Anno dopo anno, la fabbrica proseguì nel Cinquecento. Nel Settecento furono svolti importanti lavori di ampliamento e il monastero vide l’ultima prospera stagione di gloria femminile. Oggi, l'erbaccia che cresce rapidamente e i nastri rossi tesi a delimitare zone pericolose segnalano l’incertezza del presente e un futuro tutto da immaginare per un luogo con un passato rilevante e silenzioso. 

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