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Il Foro di Livio

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A cura di Umberto Pasqui

La vecchia dei Romiti

Nonostante tutto è carnevale: come festeggiavano gli antichi forlivesi mascherati in città e nella campagna?

Non che ci sia molta voglia di scherzare, in questi giorni, ma è pur sempre carnevale. Tra guerra e mascherine, sono passate in secondo piano le maschere come se da queste parti ce ne fossimo dimenticati. Eppure i giorni precedenti alla quaresima affondano radici antichissime che questo secolo ha tralasciato, radici semplici ma colte, con un valore in sé che addirittura – come si vedrà – affermavano un'identità italica direttamente connessa col mondo classico. 

Gli ultimi giorni d'inverno rappresentavano, anche da queste parti, un secondo capodanno in cui feste, scherzi ed eccessi alimentari la facevano da padrone. Per questo motivo è sempre utile sfogliare quanto riportato negli “Usi, e pregiudizj de' contadini della Romagna” che Michele Placucci stilò come rapporto di un'indagine avviata per capire come eravamo nell'età napoleonica. In esse è chiaro il significato simbolico, ormai perso, che rappresenta questo momento dell'anno: il passaggio dal vecchio al nuovo. I balli e le feste servivano per promuovere conoscenze e nuove unioni, quindi nuove filiazioni in sostituzione degli anziani e dei morti. Le maschere così rappresentano i defunti, e i “trebbi”, le veglie notturne, erano scandite da giochi a carte (a soldi) in compagnia, con musica, corteggiamenti e balli. Per accentuare il clima chiassoso della “settimana lova” di tanto in tanto si sparava da archibugi. Dall'indagine suddetta, emergono alcune peculiarità del carnevale degli antichi forlivesi. 

A Forlì, persone mascherate bussavano di casa in casa per augurare fertilità e fecondità, in cambio ricevevano cibo e vino. Questa tradizione voleva essere simbolo della benedizione dei defunti (le maschere) nella comunità che si rinnovava e nelle famiglie che si avviavano a una nuova primavera. Infatti, le maschere erano dette “le vecchie”. Si riporta, pertanto, come nella parrocchia dei Romiti di Forlì si “andasse in vecchia”, cioè si soleva girare mascherati per ottenere vino, pane, formaggio, carne, uova. Spesso questo rito festoso terminava, come si diceva, “in una famosa gatta”, cioè in una sbronza collettiva. La “vecchia” dei Romiti, così si apprende, era una maschera vestita con una “camicia bianca posta sopra i panni con un bastone in mano”. 
Contestualmente si scoprono i bagordi. A Collina di Forlì: “Nell'ultimo giorno di Carnevale si usa dai contadini a mangiare sei, o sette volte diversi cibi. La mattina a buon'ora si mangia della carne porcina; da colazione si fa la torta; da pranzo, le lasagne; da merenda la focaccia fritta, la sera da cena si cuoce la gallina, e così si finisce il carnevale con la pancia piena fino alla gola”. 

Fin da tempi remoti, nel forlivese, nella cosiddetta “settimana lova”, non si lavorava perché “l'opera di quelle giornate non arreca nessun vantaggio”. Ma non solo, perché si riteneva che fossero giorni infausti per l'agricoltura. Infatti, a Bagnolo le donne non filavano “per non pregiudicare la fava e il lino” che, secondo tale credenza, sarebbero marciti se seminati in questi giorni. Gli antenati non vedevano nessuna stranezza in queste bizzarre conseguenze della filatura perché, anche a loro insaputa, direttamente connessa con tradizioni ancestrali che si rifanno alle parche, alle moire degli antichi: si temeva che le anime dei morti si rifugiassero nelle matasse e nel filato, simboli della potenza creatrice e della possibilità di rinascita, e rimanessero a dettar legge tra le mura domestiche. 

Per il resto, altro che San Valentino: “E poi fanno feste di ballo in quelle case dove sono le giovani che hanno gl'amanti, che a queste feste concorrono a gara da tutte le parti, e starebbero come suol dirsi sul fuoco per ballare, anche non dico la gioventù, ma le persone più anziane”. E, caratteristica delle campagne attorno a Barisano era “pagare i castagni” da parte degli “amanti” all'“amica”. Particolarmente vivaci dovevano essere questi giorni a Collina dove “turme di giovinotti” bighellonavano “mascherati da donne, e da uomini” accompagnati da “suonatori di violino, chitarra e cembalo”. Tutto ciò per “ricreare ballando” di casa in casa “e cantando la gente che le abita, e ricevere da quella ciò che grata per questo sollievo loro esibisce spontaneamente”. Così, “in questi giorni di piacere, e di soverchia allegrezza, studiansi gli amanti, e s'impegnano di tener divertite le loro belle non guardandola a spesa. Introducono nelle di loro case i suonatori, e ivi si balla le notti intere, e per darle una riprova di attaccamento, e fedeltà, le onorano, partendo, con più tiri di pistola in tutte le sera, raddoppiandoli negli ultimi tre giorni particolarmente”.  Degna di nota, infine, è la curiosa tradizione di Pievequinta che prevedeva “per strada una seminagione di fagioli” come scherzo, davanti “la casa di ragazze trasandate” per opera dei soliti “giovinastri in tempo di notte”. 

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