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Il Foro di Livio

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A cura di Umberto Pasqui

Le stregonerie di zia Diamantina

Nella Vecchiazzano del Seicento viveva un’anziana e controversa guaritrice. Le sue cure alternative furono messe sotto processo. Chi era Diamantina Ramponi?

C’è un filone tutto locale che vede in una forma di farmacia ancestrale un modo efficace o soltanto superstizioso di risolvere diversi malanni. Un caso vicino nel tempo è quello di Augusto Rotondi, scolpito nella memoria come Zambutèn: anch’egli ebbe i suoi processi per esercizio abusivo dell’arte medica e se la cavò con qualche multa, poca cosa rispetto alla fama ormai proverbiale che ha riscosso. Senza scendere in particolari, molti conservano ricordi del personaggio forlivese originario di Bagnacavallo, innestato in una stirpe di sensitivi, medici empirici, erboristi, scienziati autodidatti. Riceveva in via Ravegnana, quasi davanti a Santa Maria del Fiore, specialmente tra le due guerre mondiali, sfogliando un libro di ricette ed erbe medicinali, prescrivendo unguenti, pomate, decotti, pillole o semplici consigli. Nonostante la fama (ebbe tra i pazienti anche donna Rachele e la moglie del medico Sante Solieri), morì povero e solo nel 1950. 

Sempre a Forlì qualche secolo prima, ci si imbatte in una figura forse non così rasserenante anche perché più lontana nel tempo. Diamantina Ramponi, vedova sessantenne, viveva in una casa ora scomparsa nella campagna di Vecchiazzano. Tre secoli prima di Zambutèn la contadina venne indagata per pratica medica illegale, cioè fuori dall’ambito universitario. Queste pratiche antiche potevano dare alla donna una fama da strega, tanto che la segnatura (così si chiama la medicina popolare esercitata da personaggi carismatici) sconfina spesso nella magia. Disse di poter guarire al tocco, ma quel tocco avrebbe potuto anche cagionare malattie. Un arsenale di pillole, impiastri, intrugli, erbe, sostanze misteriose vennero rinvenute nella sua casa. Tutti sapevano: forse aveva fatto un torto a qualcuno, e venne processata. Quando era più giovane avviò una sorta di fattoria, attività poi passata ai figli (numero imprecisato) di cui sono ricordati i nomi di Sebastiano, lavoratore solerte di campi, e Caterina che si dedicava al bestiame. Ecco, a mo' di verbale, quanto accadde all'apertura del procedimento:

Il 21 maggio 1603 si presentano spontaneamente al Vicario della Inquisizione di Forlì Frate Luca di Faenza e Don Orazio Pontiroli, parroco della chiesa di S. Lorenzo in Noceto, per denunciare che nella Villa detta Casa Figara hai una certa donna chiamata zia Diamantina; la quale vien famata d’essere donna la quale faccia li malefici et sani ogni sorta d’infermità tanto di huomini quanto di bestij et di conoscere le persone inferme dalli sui vestimenti negli amalati, ovvero dal chiappo di corda delli bestij, e gli dà medicine con semplice vedere delli chiappi et alcuni guarisce et alcuni altri amazza, la qual donna ha un gran concorso, è donna vecchia et non ha troppo buon nome.

Convocata, zia Diamantina confessò di aver guarito molti con un unguento di radici che si fanno nelle selvi, et opro anco una sorta d’herba la quale si chiama Manobio (che sia la mandragola?), et questo ho imparato da cì Tunino, medico de Castrocaro. Mistero fitto su questo Tunino, perplessità sul suo essere medico. La donna senza buon nome poteva far davvero precipitare nell'inquietudine, soprattutto per quegli altri che amazza. Diamantina da Forlì era ben nota, non solo da queste parti. 

Si venne a sapere che la sua clientela proveniva da tutta la Romagna, ciò fu confermato da sedici testimoni. Le di lei prestazioni erano pagate con pane, generi alimentari, farina. Alcuni di essi asserirono che la donna era conosciuta come maga benefica ma anche malefica. Il procedimento stava prendendo una brutta piega e Diamantina subì cinque interrogatori (sempre regolarmente assistita dall’avvocato Ettore Menghi): parve che la donna avesse fatto credere di essere dotata di poteri sovrannaturali per darsi un tono e per sollevarsi dalla miseria. Questa, almeno, era la linea difensiva. Il 3 agosto del 1603 fu pronunciata la sentenza: tutti i giurati, fuorché uno, erano convinti della sua colpevolezza, aggravata dalla sua partecipazione a certi riti sabbatici. Come pena, si vociferava che sarebbe dovuta stare un giorno con una candela accesa in mano sulla porta della chiesa di San Giacomo (nell’attuale piazza Montefeltro) e percossa mentre percorreva l’odierna piazza Saffi.

Queste sanzioni non trovarono applicazione perché la condanna fu molto più tenue del previsto: sarebbe stata liberata dalla custodia cautelare (per lei durata quindici giorni) e dalla prigionia a patto che non avesse più abitato a Forlì o non vi si fosse più recata. Visti i tempi, la pena cui sarebbe potuta andare incontro comprendeva cose ben peggiori di una semplice multa. Ma alla donna fu imposto di lasciare per sempre Forlì. Non si spostò più di tanto. Si trasferì a un paio di chilometri di distanza, nei pressi di Sadurano, su una collina che guardava Castrocaro facente ormai parte dei territori granducali. Il luogo da lei scelto dunque fu nascosto da una macchia impenetrabile, senza strade d’accesso. Si ritirò in una baracca su un colle tondeggiante, a 312 metri sul livello del mare, tra frassini e castagni. Qui si presume che continuò il suo “lavoro”, dal momento che la località anche oggi prende il nome di Monte della birra, dove la bevanda non c’entra niente; il significato affonderebbe le radici nella parola bèrra, cioè la moglie del bèr ossia il caprone (con verosimile connotazione mefistofelica). Nonostante la fama sinistra, il colle si chiama ancora così e, a quel tempo, le genti vicine non osavano disturbare la vecchia solitaria che ogni notte accendeva un fuoco a ridosso della sua modesta abitazione. Rimane però arduo sincerarsi sulle vere intenzioni della donna: se realmente si sia spinta oltre confini che è meglio non valicare, se sia stata una guaritrice che oggi si potrebbe definire alternativa, o se altro non fosse che una povera vedova che viveva di espedienti. 

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