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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Nel giardino delle clarisse

11 agosto: Santa Chiara. I suoi legami con Forlì, tra un antico terremoto e un recente parco archeologico.

Nella canicola non è consigliabile, ma appena è fresco merita una passeggiata il parco archeologico “Giardino di Santa Chiara” di recente allestimento. È un'operazione intelligente che mira alla riscoperta di un'identità persa (i complessi religiosi eliminati nell'Ottocento) e, contemporaneamente, evidenzia la miseria della carenza di memoria e degli sgarbi della storia. Un pannello presenta cosa si sarebbe potuto vedere nella lacuna, ora aggraziata da un verde ancor troppo giovane per fare ombra, terribilmente mutilata quando tutta l'area, dissacrata e sconsacrata, venne ceduta a un privato “per un soldo di cacio”. Si nota anche come abbiano operato in modo certosino (per rimanere in tema) i distruttori del 1806, lasciando alla sola immaginazione l'esistenza di una chiesa “vecchia”, di una chiesa “per di fuori”, di una chiesa “per di dentro”, oratori, parlatori, sacrestie, camere, celle, dispensa, refettorio e quant'altro. Ciò che rimane è solo buona parte del solido muro di cinta, tra l'altro anch'esso violato nel 1957 quando fu “inventato” viale Italia, nato, appunto, quasi come una diagonale all'interno dell'area monastica. Ed è proprio su viale Italia il principale degli accessi al giardino. Della chiesa secentesca, come d'uso in clausura separata in due parti, non rimane nemmeno un indizio, mentre del convento, di origini duecentesche, i più attenti noteranno qualche flebile particolare. Nel silenzio della clausura, sono poche le notizie che ne uscirono, come la storia dell'incendio che, alla fine del Quattrocento, rovinò quasi del tutto il monastero delle origini. Il disastro fu causato da una monaca che voleva allontanare degli insetti in un modo singolare: affumicando la cella. L'idea bizzarra forse allontanò gli insetti, di sicuro allontanò tutte le sorelle poiché non riuscì a controllare il fuoco e andarono in cenere arredi e reliquie. Tuttavia, il monastero di Forlì rinacque e prosperò fino alla fine del Settecento. Giunse quindi Napoleone con i suoi francesi e la vicenda va a finire secondo copione giacobino. In città esistevano ed esistono altri monasteri che seguono il carisma di Chiara e Francesco, però in questa sede si rimane sulla "matrice" in oggetto. 

Sostanzialmente, dopo secoli di nulla, si vuol ricordare ai forlivesi che cosa hanno perduto (e i più sensibili si chiederanno perché nessuno gliel'abbia impedito, o perché nessuno abbia immortalato in un disegno la facciata della chiesa), riprendendo possesso, almeno di una memoria, di un luogo che fu pure fabbrica di candele e di ghiaccio. Una brutta fine per un sito importante per mezzo millennio di storia forlivese e oggi, in modo tardivo e con quel po' ch'è rimasto, si tenta di rimediare. Tanto importante da dare il nome a una porta urbana caduta già in antichità in obsolescenza e anch'essa scomparsa, ora il nome riecheggia soltanto nella famosa “rotonda sbilenca” che funge da confine tra viale Vittorio Veneto e viale Italia. Il nuovo parco pubblico, così si legge nel pannello introduttivo: “si sovrappone con esattezza all'area di sedime dell'antico chiostro conventuale e le sue geometrie rimandano al tracciato dell'antica Loggia o Chiostro aperto sul Giardino (…), in questo progetto individuati dal largo marciapiede pavimentato, e dal giardino interno, perimetrato e disegnato dai percorsi in ghiaietto”. Il parco di oltre 6 mila metri quadrati fa parte del progetto di riqualificazione complessiva dell'area predisposto già nel 2007 con conseguente recupero dei bastioni e risanamento degli antichi lacerti. L'aggettivo “archeologico” (benché in apparenza ridondante) è giustificato dall'accordo intercorso con la Soprintendenza Archeologica dell'Emilia-Romagna e vuole, appunto, testimoniare ciò che resta di un luogo che non esiste più, e scorci che vennero letteralmente riscoperti una trentina d'anni fa, dopo un lungo periodo d'oblio. 

Per quanto riguarda la venerazione locale a Santa Chiara, non può sfuggire che la ricorrenza (11 agosto), è particolarmente sentita da queste parti dal 1483. In quell'anno, seguendo le cronache del Marchesi, si legge di un "horribile terremoto" iniziato all'una di notte dell'11 agosto "per lo spavento del quale il Conte Girolamo (Riario) si ritirò nella Cittadella di Ravaldino sotto un padiglione (...) per esser salvo dalle ruine (...) poiché ad un'hora di notte si fece sentire con tanto impeto che sonarono le campane del campanile di S. Mercuriale da sé, per modo che furono udite da tutta la Città, anzi la pigna del medesimo campanile s'aperse in maniera da una parte all'altra, che fu necessario farla risarcire, & inchiavare, e riedificare insieme due torricini caduti". Inoltre "cadde ancora il pennello del campanile del Duomo, e tutti i torricini di quello di S. Agostino, un pezzo della Torre di Giacomo Ravaglioli nella contrada di Santa Croce, & un pezzo de' Chiostri della Chiesa di S. Francesco". Questo flagello durò un mese e visto che era iniziato per la ricorrenza di Santa Chiara, i cittadini "risolsero d'andare processionalmente col Clero ogn'anno il giorno festivo di detta Santa alla di lei Chiesa, dove si cantava solennemente una Messa". Dopo la demolizione della chiesa, la messa votiva iniziò a celebrarsi in Duomo all'altare della Madonna del Fuoco. 

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