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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Non passa il bolognese!

Per chi si chiedesse perché mai ci sia una rivalità tanto accesa con Bologna, ecco una ragione antica: la battaglia di San Procolo del 1275

Tra il maggio e il giugno del 1275 si preparò e si svolse un episodio glorioso per la storia forlivese, un aperitivo del maggiormente noto “Sanguinoso Mucchio”. Il protagonista è pur sempre lo stesso ed è ben raffigurato da Giuseppe Marchetti nella Sala del Consiglio Comunale di Forlì. Si tratta, come i più accorti avranno capito, di Guido da Montefeltro. 

Gli screzi tra Bologna (a trazione guelfa) e Forlì (ghibellina ostinata) erano inevitabili se si pensa che la Turrita ha sempre avuto smanie di controllo da queste parti, smanie che permangono. Anche in questo caso, seppur in piccolo, i rapporti di forze giocavano a sfavore dei forlivesi, in numero minore, armati di balestra e di fierezza ma avrebbero potuto ben poco senza un condottiero sagace. In effetti, Bologna si era lanciata verso Forlì ma il tentativo di darle una lezione o addirittura conquistarla era fallito (più tardi, invece, Imola sarebbe caduta sotto il controllo dei felsinei, come, almeno amministrativamente, rimane). Tra Imola e Forlì, a fare da argine, c’è Faenza che in questa storia ha un ruolo fondamentale. 

Per contestualizzare un po’ meglio la faccenda risalente a tempi lontani e oscuri basti dire che a Bologna, alla fine del Duecento, le fazioni recavano i nomi delle famiglie allora in auge: i Geremei (cioè i guelfi) e i Lambertazzi (cioè i ghibellini). Gli scontri tra dette fazioni si ripercossero sulla Romagna giacché, una volta affermatisi i Geremei, i Lambertazzi furono esiliati e trovarono riparo nelle città di Forlì e di Faenza, amiche dei ghibellini.  Il successo dei guelfi li rese tracotanti e smargiassi  e trascurarono qualche aspetto importante: la fazione avversaria, infatti, stava passando alla reazione e sul campo avrebbe schierato un tridente potentissimo: Guido da Montefeltro, Maghinardo Pagani da Susinana, Teodorico degli Ordelaffi. Il cronista Cobelli (ne scrive duecento anni dopo) racconta che Guido da Montefeltro avrebbe assicurato ai forlivesi: “Remettete a me ogni cosa, e lassatimi fare”. E lo lasciarono fare. 

Venerdì 7 giugno 1275, i Geremei si erano accampati in una località a metà strada tra Faenza e Castel Bolognese, sul fiume Senio, cioè Ponte San Procolo. Volevano farla pagare ai ghibellini e riportare a casa (non certo per affetto) i Lambertazzi che avevano trovato rifugio e ospitalità nella città sul Lamone e in quella sul Montone. Come tutti gli eserciti del tempo ebbero tempo e modo di saccheggiare quanto possibile, distruggendo qua e là, commettendo efferatezze e spingendosi quasi a ridosso delle porte di Faenza. Come scrive Cobelli: “fecero il guasto”, in particolare “spianando fossi e tagliando alberi froctiferi e non froctiferi”, nei giorni successivi “brusoro molte case, e taglioro vigni e alberi, e taglioro formenti e altre biave infinite”. I bolognesi si diressero poi verso il castello di Tebano e “fecero bataglia”. Nel frattempo pensarono di inviare un’ambasciata a Forlì per farsi consegnare i Lambertazzi ivi rifugiati “ligati le mani” e, già che c’erano, pretendevano “tancti denari e tancto argento”. I liviensi, con un un moto d’orgoglio che una volta evidentemente avevano, risposero ai bolognesi “che era Forlivio libero e terra di libertà”.

Teodorico degli Ordelaffi, in più, conferì questo agli “inbassatori”: “Dì a li toi signori bolognesi che nui non li timemo un fico, e quella stima fan de nui facemo de loro, e che non siamo birri”. Li salutò con un “Va con el diavolo” diretto agli “Homini da poco, che credano signorizar Forlivio per loro superbia”. E altre amenità. L’esito di questa forma singolare di diplomazia fu ira e indignazione dalle parti di Bologna, tanto che “fecero armare e levare tutto il campo”. I “guastatori” iniziarono a fare altri danni in giro, dedicandosi più che altro a sabotaggi idraulici a chiuse e canali, insomma, il tutto per far pesare ancor più la presenza indesiderata. Mentre i guelfi erano distratti a disastrare il territorio faentino, il campo principale era rimasto sguarnito. Approfittarono dell’incautela i ghibellini che, sotto traccia, si diressero verso il Ponte. Primi a partire furono gli uomini guidati da Maghinardo Pagani e Guglielmo Pazzi, condottiero toscano del Casentino. I guelfi, accortisi della loro negligenza, ripiegarono per tornare in tutta fretta al campo.

I ghibellini, però, erano poca cosa rispetto all’imponente spiegamento di forze dei Geremei che avevano radunato rinforzi dalla Lombardia, dalla Toscana e dalla Romagna stessa. Maghinardo, quindi, mandò a chiamare Guido da Montefeltro perché era necessario il suo contributo. Il capitano generale dei forlivesi mosse dunque il suo esercito verso Faenza e lo fece con cautela e intelligenza, secondo il suo stile. Infatti, mandò la fanteria sulla via Emilia, facendole seguire la più scontata delle traiettorie, cioè quella che i Geremei si sarebbero aspettata. La cavalleria, invece, percorse un tragitto più lungo, ad arco, in direzione Lugo e precisamente passando per San Pier Laguna dove stazionava la cavalleria bolognese. Ai Geremei dunque si fronteggiarono i soli Lambertazzi e ciò ai guelfi diede la sensazione di aver praticamente già vinto (“tutto qui?” si saranno chiesti). Mentre i bolognesi la suonavano ai fanti ghibellini, arrivò la cavalleria di Maghinardo che strinse da un fianco l’esercito guelfo, e la cavalleria di Guido, dall’altro fianco. La tenaglia fu micidiale e i Geremei, accortisi troppo tardi della trappola, fecero quel che poterono per uscirne decorosamente. 

Cosa che non successe: non solo perché lasciarono sul campo migliaia di morti (si contarono tremila vittime) ma perché ne seguì l’onta. Infatti, il 13 giugno cedettero ai vincitori il Carroccio e i vessilli. In particolare il Carroccio, cioè quel veicolo a quattro ruote simbolo di libertà comunali e che durante le battaglie stava al centro del campo per funzioni religiose o come una sorta di ambulanza, sarà conservato a lungo nella sala del Consiglio di Forlì. L’asta del gonfalone bolognese, invece, troverà ospitalità nella chiesa di San Giacomo dei Domenicani. 

Ancora Cobelli scriverà che “li bolognesi che romase vive tornoro a Bologna con poca zenti nobile, perché foron morti in la bataglia e sconficta teribellissima” fino a stimare che, tra morti e prigionieri, vennero coinvolti “octo milia bolognesi”. 
Esaltato da tanto successo, Guido da Montefeltro (il più abile politico che Forlì abbia avuto in tutta la sua storia) pochi mesi dopo conquistò Cervia sottraendo a Bologna la fonte primaria di sale, poi cacciò da Cesena i Malatesta. Pertanto divenne il capo indiscusso dei ghibellini romagnoli. 

Maghinardo Pagani, personaggio dantesco (il “lioncel dal nido bianco”) originario di Susinana, borgo nei pressi di Palazzuolo sul Senio, era comandante della “lega amicorum” in funzione antibolognese e antiguelfa. Al servizio prevalentemente dei ghibellini di Faenza, ebbe successo pure a Forlì dove sarà nominato Podestà. Per una manciata di anni ricoprì il massimo potere in un’area compresa tra Imola e Forlì, territorio che, almeno dal 1299 al 1302 (anno della sua morte), era considerato “cosa sua”. Finì la vita a Marradi e con lui terminò la sua signoria non avendo avuto eredi. Non risulta che nel Comune di Forlì vi sia una strada che porti il suo nome, pertanto si segnala alla Commissione Toponomastica la richiesta di colmare al più presto la lacuna. 

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