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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Ascesa e caduta del “Vicesignore”

Giacomo Feo, secondo marito di Caterina Sforza. Il successo, la congiura, la vendetta della vedova: una storia d’amore, potere e follia

Caterina Sforza, donna tutta d’un pezzo. Sì, ma perse la testa per un ragazzo di circa dieci anni più giovane. Giacomo (o Jacopo, se preferite) Feo, questo il suo nome, era un forlivese di ascendenze liguri come Girolamo Riario, il Signore di Forlì e Imola che per moglie, appunto, aveva Caterina Sforza. Di famiglia ben avvinghiata ai posti giusti, Giacomo, assistente del Riario, seppe attrarre a sé le attenzioni della donna: in cambio ottenne la carica di castellano e a diciott’anni fu padre di Bernardino, da lei nato nel 1489. Certo, Caterina era vedova, ma la relazione andava avanti da tempo. Il legame non poteva essere ufficiale: se fosse stato reso pubblico, a Caterina sarebbe stato tolto l’incarico di reggente (arzdora) dello Stato di cui era padrone il figlio Ottaviano. Vero è che la coppia si sposerà in segreto (nel 1493) e Giacomo, novello cavaliere, divenne capo dell’esercito. Era così preso dal ruolo che amava definirsi “eques armorum”, termine che potrebbe essere reso con “Vicesignore”: un titolo che inevitabilmente avrà fatto infuriare Ottaviano. Infatti, non solo diceva di esserlo, ma lo scriveva pure nelle lettere, sicuro di sé e della protezione della sua signora. Non era però solo un giovane carino e ambizioso (e spaccone), di lui Cobelli dirà: “Mai fo a Forlivio homo più temuto de costui: faceva stare a signo hogn’omo”. 

In effetti, il caso Forlì appariva inspiegabile: un Signore titolare c’era, però lo scettro era impugnato dalla madre soggiogata, plagiata dal giovane drudo. Non essendone pubblicamente il marito, perché aveva così tanto potere, perché conduceva il governo locale? La situazione, nelle corti di altre città, interrogava più che suscitare pettegolezzi. Non si vedevano molte soluzioni: o lui uccide lei, o lei uccide lui. Oppure il pallido Ottaviano avrebbe potuto far fuori entrambi per ricordare i suoi diritti e stabilire il suo potere. La diplomazia quattrocentesca non immaginava sbocchi diversi, la vicenda sembrava già irrimediabilmente compromessa. Non era un segreto che Ottaviano non lo sopportasse: contro di lui, qualche anno prima, aveva ordito un attentato ma il complotto non riuscì. Chi si accorge dei particolari, si sarà reso conto che i personaggi di potere, qui, sono tutti ragazzini. Nel 1493 la vedova Caterina Sforza ha trent’anni, Giacomo Feo ne ha ventidue, Ottaviano Riario, invece, quattordici. In quello stesso anno, mentre era in Duomo, Feo scampò a un’altra congiura tramata dalle famiglie Marcobelli e Orcioli, legate al giovane signore titolare.

Le cose non andarono certo migliorando e non si pensi che Forlì fosse così marginale, era invece decisiva: una strettoia tra Firenze e il mare, contesa tra tutti i poteri del tempo. Per questo molte città grandi ne guardavano con trepidazione gli sviluppi. Pare chiaro che in tale frangente la linea politica fosse dettata da Giacomo Feo, sempre più autorevole o autoritario (di ciò che pensasse Ottaviano Riario non è dato sapere): nel 1494 incontrava il re di Napoli, il cardinale Riario per il Papa, il duca di Calabria e, a novembre, i francesi di Carlo VIII che si erano accampati nei dintorni della Città. Evidentemente riuscì nelle ambascerie se venne creato barone del Regno di Francia e per riconoscenza, aggiunse Carlo come secondo nome al figlio. La presenza del barone rampante, o ingombrante, era sempre più tossica per Ottaviano tanto che si narra che si presero a schiaffi. E fu proprio uno schiaffo dato da Feo al giovane Riario ad accelerarne la fine. Così entrò in scena il fedele armigero del sedicenne Ottaviano: Gian Antonio Ghetti. Costui chiamò a sé i Marcobelli, gli Orcioli e tutti quanti avrebbero voluto mettere le mani addosso al marito segreto di Caterina Sforza. 

27 agosto 1495: era ormai notte quando una comitiva entrò in città da Porta Schiavonia, giorno di Santa Monica, adatto all’uccellagione e alla caccia. Giacomo Feo amava l’arte venatoria ed è facile immaginare che fosse uno di quelli che racconta agli amici chissà quali enormi prede ha saputo catturare. Così, dopo una giornata estiva a inseguire volatili in località Cassirano (a meno di quattro chilometri da San Mercuriale verso Villanova), la prima famiglia di Forlì stava rientrando in Città. Erano sul carro Caterina Sforza, Bianca sua figlia e alcune dame. Dietro, a cavallo, Giacomo Feo, Ottaviano e Cesare Riario seguiti dalla scorta. Al ponte dei Bogheri (detto dei Morattini), cioè sull’odierno corso Garibaldi tra piazza Melozzo e via Lazzarini, si erano appostati sette figuri coordinati da Gian Antonio Ghetti. Gli altri si chiamavano Domenico Ghetti (suo parente), il servitore Fiorentino, Filippo delle Selle, due preti non certo senza macchia e un contadino. 
Se il carro passò, Ghetti si avvicinò al Vicesignore trattenendo il cavallo per le briglie. “Che fae, Zan Antoni?” chiese Feo, e fu trapassato dalla partigiana (una specie di lancia) di Fiorentino. Era ancora vivo, quindi Ghetti proseguì a ferirlo mentre sussurrava: “Ohimè! Io so’ morto”. Caterina Sforza si lanciò dal carro montando un cavallo con cui corse verso la sua rocca, seguì un fuggi fuggi generale favorito dalle tenebre notturne. La scorta? Sparita. A chi era lì, gli assassini giurarono di averlo fatto “per comandamento de madonna e del signor Hoctaviano”. Volarono quindi, come eco, grida dei forlivesi ingenui: “Hoctaviano! Hoctaviano!”. In effetti, i congiurati speravano che la popolazione si ribellasse ma la confusione regnava sovrana: da Ravaldino giunse invece la notizia di una taglia di cento ducati sulla testa di Ghetti. Ben presto in piazza si radunò una folla di gente con fiaccole, urlante e tesa, eccitata dai fatti di quella notte. Alcuni si buttarono con foga nella caccia all’uomo; Ghetti, la preda, perse tutto il vantaggio e fu finito nei pressi del Duomo. Ne fu fatto scempio: ai forlivesi i cento ducati facevano comodo ben più di velleità idealistiche. Cobelli vide quel corpo, racconta che “Non avea forma de cristiano”. La testa di Giacomo Feo, invece, sembrava una melagrana (“mila granata”) aperta: “certo non vide mai tale ferite in quello vulto ch’era cossì bello”. Il cronista non riuscì a trattenere le lacrime: “considerato che era cossì bello, bianco, polito” ma “insangonato in uno zippone de broccato de panno d’oro e li calci de rosato e borzachini”.

La mattina seguente, in piazza era in mostra il cadavere di Ghetti, impiccato alle volte del Palazzo. Accanto al suo, quello di don Domenico (che era stato trascinato lungo Borgo Schiavonia “a cuda de cavallo” e infine sgozzato), insomma, “era consumato, brosato, iscorticato e mal aviato”. Poi fu appeso “tucto nudo senza motande”: “e puro era priete”. La sua abitazione fu saccheggiata come quella degli altri coinvolti. Le case dei Marcobelli e degli Orcioli saranno atterrate, i delatori vennero torturati col fuoco. Ma se la vendetta a quel tempo era un diritto, qui andò oltre l’uso. La moglie di Ghetti (già amica di Caterina Sforza) fu gettata in prigione e lasciata morire coi figli. A un cinquenne venne tagliato il collo. E così la prole dei sette congiurati sarebbe stata uccisa o morì di stenti nelle segrete della Rocca. Fu fatto strazio, come se il raccapriccio non fosse sufficiente, di qualche fanciullo Orsi rimasto indenne alle ritorsioni per l’ammazzamento di Girolamo Riario, il primo marito. Le famiglie che avevano sollevato rimostranze contro Feo furono vittime di soprusi, furti, violenze e tanta galera se non il cappio, la lama o i carboni ardenti. Fu la Tigre a volere tanto scempio? Di sicuro non è mai intervenuta per salvare nessuno, né mosse un dito quando vennero esiliate o impiccate intere famiglie ostili. Fino alla fine del mese seguirono altre carcerazioni a tappeto, era sufficiente un cognome come Marcobelli, indipendentemente da età, fatti e convinzioni, per finire dietro le sbarre. Anche in questo caso pare inquietante l’assenza di Ottaviano Riario, il Signore insignificante: dopotutto la “rivoluzione” sarebbe dovuta essere a suo vantaggio, però la mamma è sempre la mamma. Di sicuro si sa che se ne andò di casa giusto per dormire tranquillo, alla fine lui e i suoi fratelli furono imprigionati dalla madre per lunghi mesi. Insomma, nelle corti italiane ed europee studiavano con orrore quei matti di Forlì. 

Il cadavere di Giacomo Feo, buttato nel fossato delle mura, fu raccolto dai Battuti Neri e lasciato in via provvisoria nella chiesa di San Bernardo nei pressi del luogo del delitto (ora c’è una pizzeria) poi in quella di San Girolamo (cioè San Biagio) dove frate Ludovico celebrò i funerali il giorno 29. C’era tantissima gente, anche chi si era dimenticato l’odio che nutriva verso il de cuius o forse, vista l’aria che tirava, conveniva farsi vedere. L’indomani, Caterina Sforza rivelò che Giacomo Feo era stato suo marito: nel furore squilibrato, a suo modo, si manifestava donna innamorata? In seguito, nella Rocca di Ravaldino fu eretta una statua bronzea raffigurante il Vicesignore andata dispersa con l’assalto Borgia di qualche anno dopo. Inoltre, la vedova fece decorare la cappella dove era stato sepolto il secondo marito, in San Biagio, dalle mani sapienti di Melozzo e Palmezzano. Il ciclo di affreschi è ora visibile solo su carta e in bianco e nero: la chiesa venne bombardata e tutto andò perduto.

Il Ponte dei Morattini, la chiesa di San Bernardo, l’antica San Girolamo: sono opere che non esistono più, come se lentamente, nel corso dei secoli, Forlì abbia voluto (o patito) il nascondimento, l’oblio del giovane belloccio, spocchioso e arrogante. Reliquie del suo tempo da troppo resistono a disamore e incuria, come la Rocca di Ravaldino, la Ripa o i brandelli delle mura che sembrano non veder l’ora di sparire del tutto. Il Ponte dei Morattini, vestigia romana, a metà dell’Ottocento intralciava il traffico e fu piallato fino a scomparire, per quel che rimane, sotto il manto stradale. Qualche decennio prima San Bernardo, una chiesina a pianta ellittica dalla facciata pregevole, fu acquistata da un privato (il faccendiere Manzoni) che ne occultò ogni traccia visiva. Di San Biagio si sa: la chiesona, dopo essere stata centrata dal cielo, finì la sua storia antica con l’anno orrendo: il 1944. Il volto di Giacomo Feo e tutti gli altri ricreati nell’arte di Melozzo o chi per lui, con cui i fedeli dialogavano a messa, dopo la distruzione sono stati confusi tra materiale da costruzione come ciò che restava del suo corpo martoriato. La meritoria ricostruzione della chiesa negli anni Cinquanta non ha previsto una riproposizione della cappella affrescata. I forlivesi del Quattrocento, in quanto a fermento creativo, osavano molto di più dei contemporanei.

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