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Il Foro di Livio

Il Foro di Livio

A cura di Umberto Pasqui

Storie di antichi maestri

Chi insegnava nella scuola forlivese nel Cinquecento? Ecco la riscoperta di alcune storie pressoché sconosciute

Sono giorni in cui maturano gli esami di Stato nelle scuole. Anche nella Forlì antica c'era un istituto destinato alla formazione dei laici. Si tratta di una scuola finanziata dalla Comunità, di cui si ha notizie da secoli prima. Come quella cara alla tradizione della Madonna del Fuoco, di cui viene ricordato il maestro Lombardino (1428). Difficile è ricostruire molto, ma qui si provano a intrecciare alcune informazioni che sono scampate ai fanatici delle dispersioni degli archivi. Prima di tutto va detto che la “scuola” in senso rinascimentale è cosa piuttosto diversa da quanto sia ora. Ma per questo si rimanda ad approfondimenti di chi volesse farli.

Intanto va ricordato che i maestri venivano o invitati dal Consiglio (ora si può dire “Consiglio Comunale”) o assunti mediante saggio pubblico. Venivano eletti attraverso il ballottaggio, cioè la procedura di origine monastica che prevedeva di inserire una fava bianca o nera ("ballotta") in un vaso secondo la volontà positiva o negativa nei confronti della persona indicata. Lo stipendo era pagato bimestralmente e il maestro poteva rilanciare al rialzo o rifiutare, tenendo conto dell'orgoglio personale e delle referenze.

Si scrive di altre figure, come il ripetitore, il sottoripetitore, il coadiutore, non sempre presenti in numero uguale, spesso con ruolo di supplenti. Curiosamente – fatto che fa capire che il “braccino corto” nei confronti della scuola non è cosa nuova – il denaro per pagare il maestro si ricavava in gran parte dal dazio della concia delle pelli. Quindi il Consiglio premeva in tutti i modi affinché il maestro s'intestasse la conceria per poi cederla in affitto e godersi di tale rendita come stipendio, senza pretendere altro. Ovviamente la proposta non era quasi mai presa in considerazione. 

Essendo Forlì, nel Cinquecento, città dentro lo Stato Pontificio, va preso in considerazione che erano decenni percorsi da pruriti derivanti dalla Riforma, pertanto i maestri dovevano annunciare la retta dottrina e testimoniare un consono stile di vita. Sarà per questo che si citano precettori che ebbero problemi con la giustizia: Marcello Palingenio, latinista, fu fatto molto aspettare perché nel suo trattato “Zodiacus” non era stato tanto tenero con Santa Romana Chiesa. E Cristoforo Fondi, confinato a Firenze non si sa perché, poi liberato. E Nicolò Selvaggiani, messo in carcere. E Cesare da Fermo, umile maestro di scrittura e di geometria che fu arrestato per le maldicenze del libraio Ercole. 

Il primo maestro del Cinquecento di cui si hanno notizie è Cristoforo Bucci Fondi e lo troviamo citato nel bel mezzo di un guaio. Nel 1517, il Presidente di Romagna, il vescovo Alessandro Guasco, fu ucciso a Forlì il 9 agosto. Venne chiamato dunque dal cardinale Bernardo Tardati, un po' per evitare che l'ira di Roma contro Forlì fosse eccessiva, un po' per capire quanto accaduto. A oggi pare un mistero. Comunque il maestro viene pagato dal 1515 al 1520 come professore di retorica e grammatica, poi se ne andò a Firenze. 

Gli successe Sigismondo Ferrarese, famoso maestro di matematica che contribuì a disegnare la chiesa di San Michele dei Battuti Rossi (il Buon Pastore in via dei Mille).  Particolarmente esosa fu la cattedra di Lodovico di Anghiari che non volle accettare lo stipendio di 400 lire (il doppio dei suoi predecessori) ma poi si adattò a un accomodamento. Forse godeva di ottime referenze come già maestro dei chierici di San Lorenzo in Firenze e più tardi lasciò Forlì per essere eletto, nel 1534, professore di grammatica greca e latina a Pistoia.  In questi stessi anni si cita pure Manilio Antonio (dal 30 dicembre 1533), il quale – poveretto – oltre ad accontentarsi di un basso stipendio, si sentiva così prossimo alla morte che domandava che gli fosse liquidato un suo conto. Infatti entro la fine del 1534 passò a miglior vita. 

L'11 febbraio 1535 fu il turno di un personaggio problematico: Marcello Palingenio. Sicuramente carismatico, capace, ma ritenuto un “cattivo maestro”, tanto che il suo incarico venne congelato per via del saggio “Zodiacus” - come già detto – che poco si confaceva alla retta dottrina. Venne quindi convocato ancora Lodovico da Anghiari, sicuramente meno prestigioso. Palingenio, comunque, fu maestro benché sotto osservazione fino al 1538. 

Seguirono anni difficili per la scuola forlivese. Si sa che allora aveva sede “nella casa di Guglielmo Baldraccani” e, in mancanza di un maestro propriamente detto, il posto fu preso dal ripetitore don Biagio Foschi. Ebbe recensioni pessime: “Magister scholae male se gerit”, come a dire “non sa fare il suo mestiere”. Venne convocato dunque da Ancona tale Domenico Cilesseo, professore di lettere, e un certo Valentino. Un quarantotto! Gli scolari fecero sciopero, lagnanze a non finire. Il Consiglio fa una sintesi vaga: “Magister non satisfacit”, “non è all'altezza”. Si prova con l'usato sicuro (Lodovico di Anghiari) ma ormai è fuori età. Si candida a maestro Baldassarre Gaddi che però “est impeditus continuo morbo”, cioè tanta volontà ma poca salute. Pare che l'insofferenza degli studenti, oltre alla possibile incapacità dei maestri (insipidi?) del periodo 1538-1542, fosse l'esito del ricordo del Palingenio che faceva impallidire i successori. 

Il 1° luglio 1542 viene eletto Petronio Budi di Castelbolognese. Ebbe note di biasimo per negligenza tanto che fu licenziato e poi riassunto con la condizione di essere più diligente (37 voti a favore contro 14). Fu però poi espulso nel 1548 per cattivo servizio senza che gli si pagassero alcune mensilità. Nonostante tutto ciò, pare che fosse lodato per l'abilità nell'insegnare.
Il successore, Andrea Berti di Forlì, fu il maestro che più a lungo rimase tra gli scolari, almeno fino al 23 febbraio 1573, nonostante che l'arrivo dei Gesuiti sembrasse che avrebbe condotto la scuola sotto la loro gestione. In effetti, nel 1559 se ne andò per evidenti dissidi con l'ordine di Loyola però poi tornò con l'aumento di dieci scudi e con facoltà di espellere gli alunni discoli, e già che c'era volle un seggio in Consiglio. La proposta fu accettata e gli fu affiancato un coadiutore.

Livio Cimatti è il primo che viene eletto con un “concorso pubblico”. Infatti, ormai tanti erano i concorrenti e fu necessario selezionare i candidati con una prova nel Palazzo. Il suo incarico durò tre anni, e nel 1576 il suo posto fu preso da Girolamo Macchiavelli. Si sa che a quel tempo la scuola aveva sede nel Palazzo del Podestà. Di costui si evidenzia che fu il primo maestro forlivese ad avere un contratto scritto in lingua italiana: “Leggerà quelle lezioni che a lui parranno più necessarie ed utili, dando epistole, eleganze, temi, dichiarando regole, facendo esamini ed eseguendo il debito di diligente, giudizioso ed amorevole precettore, con obbligo di far recitare un'orazione in quel genere che a lui più piacerà”. Il 29 agosto 1580 si propose al Consiglio l'opportunità di eleggere a maestro Basilio Hercolani di Sestino, in quanto “uomo approvato, di buoni costumi e lettere”. Rimarrà sulla cattedrà forlivese fino al 16 aprile 1586. 

A metà maggio del 1586 fu nominato Nicolò Selvaggiano da Firenze insieme col ripetitore Lelio Bonamici. Non si sa perché il 29 ottobre 1592 fu messo in carcere. Nonostante tale trascorso sarà poi rieletto nell'agosto del 1593 conservando il suo posto fino al 1596. Ebbe grandi referenze il successore, Livio Sordi, “nato alla poesia”, tanto che Torquato Tasso “conoscendo il di lui valore, fece giustizia alla sua virtù con le dovute lodi”. Sfuggono, ora come ora, documenti che attestino la veracità di tale asserzione ma tant'è. Fu parroco di Santa Lucia in Forlì dal 1571 al 1587. 

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